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Agnese Collino
pubblicato il 05-09-2016

L’immunità nelle metastasi cerebrali da tumore al seno



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Capire come lo spegnimento del sistema immunitario aiuta il tumore mammario a formare metastasi nel cervello è l’obiettivo della nostra Cristina Richichi

L’immunità nelle metastasi cerebrali da tumore al seno

Le pazienti affette da metastasi cerebrali derivanti da carcinoma alla mammella triplo negativo hanno a loro disposizione poche opzioni terapeutiche e purtroppo presentano tassi di mortalità elevati. Sviluppare nuove terapie è quindi di grande urgenza ma, per farlo, è necessario conoscere meglio i meccanismi con cui il tumore al seno colonizza il cervello. È questo l’obiettivo di Cristina Richichi (nella foto), ricercatrice milanese presso l’Istituto Europeo di Oncologia sostenuta da Fondazione Veronesi attraverso il progetto Pink is Good: Cristina vuole capire il ruolo del sistema immunitario nel favorire l’attecchimento nel cervello delle metastasi mammarie.

Cristina, raccontaci il tuo progetto.

«Recentemente è stata documentata in diversi tipi di tumore una stretta connessione tra l'attività immunitaria, la risposta al trattamento e l’esito della malattia. Nelle metastasi cerebrali vi sono elevate concentrazioni di linfociti infiltrati, soprattutto di tipo T, cellule attive del sistema immunitario che combattono le cellule anomale. I tumori, però, producono alti livelli delle proteine PD-1 e PD-L1, che spengono l’attività dei linfociti e quindi sfuggono alla sorveglianza immunitaria, riuscendo a proliferare. Con questo progetto puntiamo a valutare il numero di linfociti e i livelli della proteina PD-1 nelle metastasi cerebrali derivanti da carcinoma della mammella, per studiare l'eventuale correlazione di questi due parametri con la metastatizzazione. A questo scopo adotteremo diversi approcci, tra cui la stesura di un "profilo immunitario" delle lesioni tumorali».

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Quali prospettive apre il tuo progetto per la salute umana?

«Il fine ultimo è valutare una combinazione di trattamenti in grado di prevenire la metastatizzazione del carcinoma della mammella, chiarendo l’importante ruolo dell’immunoterapia nelle pazienti. Un approccio immunoterapeutico, una sorta di “vaccino” terapeutico contro il cancro al seno triplo negativo che non risponde ai trattamenti comuni darebbe nuova speranza a migliaia di donne afflitte da questo sottotipo: circa il 12% delle 50 mila pazienti diagnosticate ogni anno in Italia».

Sei mai stata all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Tutta la mia formazione dalla tesi di laurea al post-dottorato è avvenuta presso l’Istituto Mario Negri di Milano, e il mio laboratorio aveva una collaborazione in corso con la University of California a Irvine. Mi è stata offerta la possibilità di fare un’esperienza lì: devo averci riflettuto sì e no 30 secondi. Era il periodo pre-crisi economica (il 2003), in cui non tutti optavano per una esperienza all’estero, ma io ho pensato che sarebbe stata un’opportunità meravigliosa. Ci sono rimasta fino al 2008».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Ti è mancata l’Italia?

«Ho imparato moltissimo dal punto di vista lavorativo, ma ciò che più mi porto dentro sono le persone. Quando hai 9 ore di fuso orario con l’Italia e torni a casa per 10 giorni l’anno, gli amici che ti fai all’estero sono una nuova famiglia. Impari a convivere con etnie e tradizioni diversi, allarghi i tuoi orizzonti. Non ho mai sentito la mancanza dell’Italia: Irvine e il sud della California per me sono casa. Ancora oggi quelle persone sono una parte importante della mia vita, nonostante siano sparsi ovunque nel globo!». 

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Ho sempre mangiato pane e scienza a casa. Durante l’ultimo anno di liceo volevo seguire le orme di mio padre e fare il medico, ma poi mi sono in qualche modo convinta che lavorare nella ricerca sarebbe stato più avvincente. E così ho scelto questa strada».

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Considerando che mi piace moltissimo quello che faccio, mi vedo esattamente dove sono ora. Ovviamente non nego che preferirei la stabilità e una migliore retribuzione, ma non potrei mai rinunciare al lavoro al bancone: è quello che mi piace fare, che so fare e per cui ho studiato e faticato tanto!».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Il fatto che ogni giorno ti svegli e vai a lavorare non avendo idea di quello che succederà. Puoi sudare per mesi o anni facendo miseri progressi, fino al giorno in cui tutto cambia e ti rendi conto che hai chiuso un cerchio. La soddisfazione e l’appagamento sono indescrivibili».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«La competizione malsana. Fare ricerca implica lavorare in team, ma nel senso più ampio possibile: tutti i laboratori insieme in uno sforzo comune. Ma spesso quello che vedo è un’assurda competizione per un’altrettanto assurda rincorsa alla pubblicazione di livello più alto per essere considerati il meglio. Mi fa davvero tristezza».

Cosa ne pensi dei “complottisti” e delle persone contrarie alla scienza per motivi “ideologici”?

«Non posso evitare di pensare che movimenti antiscientifici come quelli antivaccinisti e contestatori della sperimentazione animale partano da una base di ignoranza, nel senso di mancata o cattiva informazione. Ai giorni nostri siamo totalmente alla mercé della cattiva comunicazione sul web: quello che viene scritto da alcuni personaggi sui social fa danni, tanti e gravi. A questo occorre aggiungere le manipolazioni da parte di ciarlatani, che costruiscono la loro fama e fanno soldi sulla pelle di povera gente che a loro si affida. Quando ripenso all’allarme per il crollo delle vaccinazioni contro il morbillo o che si possa morire di pertosse nel 2016 mi vengono i brividi».

Cosa fai nel tempo libero?

«Mi piace fare sport, soprattutto correre per scaricarmi alla fine di una giornata di lavoro. Adoro andare alla ricerca di nuovi ristoranti ed assaggiare piatti particolari o stranieri. Ma in cima a tutto c’è il viaggiare, una passione che fortunatamente condivido con il mio compagno».

Quali sono il libro e il film che più ti piacciono o ti rappresentano?

«Rispettivamente “L’isola di Arturo” di Morante e “Mediterraneo” di Salvatores».

Una “pazzia” che hai fatto.

«Più di una… ma non si possono dire!».

 

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