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I nostri ricercatori
Agnese Collino
pubblicato il 21-11-2016

Qual è l'ora giusta per assumere i farmaci antitumorali?



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Le funzioni delle nostre cellule seguono un ritmo preciso: Marina Maria Bellet punta a capire in quale momento è meglio effettuare un trattamento chemioterapico per avere i massimi benefici

Qual è l'ora giusta per assumere i farmaci antitumorali?

La maggior parte delle funzioni svolte dalle cellule del corpo umano tendono a seguire un preciso ritmo nell’arco delle 24 ore: è il cosiddetto ritmo circadiano, un orologio biologico che permette al nostro organismo di adattarsi all'alternanza di luce e buio. Alterare i ritmi circadiani ha profonde conseguenze sulla salute e può favorire l’insorgere di svariate malattie, incluso il cancro. La cronoterapia si riferisce alla somministrazione di ciascun farmaco a uno specifico orario del giorno, quando è massima l’efficacia e sono minimi gli effetti collaterali. In particolare l'orario di somministrazione dei farmaci antitumorali è un fattore importante in grado di modificarne ampiamente sia la tollerabilità sia l'efficacia, ma i processi cellulari alla base di queste differenze sono ancora poco conosciuti. Comprendere meglio i meccanismi che legano il funzionamento di farmaci chemioterapici al ritmo circadiano è proprio l’obiettivo di Marina Maria Bellet (nella foto), che grazie alla Fondazione Umberto Veronesi porta avanti un progetto di ricerca presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università degli Studi di Perugia.

Marina, parlaci più nel dettaglio del tuo progetto.

«Questo studio, già in corso da un anno grazie al sostegno di Fondazione Veronesi, vuole definire il meccanismo molecolare di azione circadiana di alcuni farmaci antineoplastici. L'ipotesi principale è che specifiche proteine del sistema circadiano abbiano un ruolo nel regolare le risposte cellulari alla chemioterapia, e che i prodotti di noti oncogeni e gli enzimi epatici regolatori del metabolismo dei farmaci siano controllati direttamente dal sistema circadiano. Nell’arco del progetto andrò a testare una serie di farmaci chemioterapici, di cui già si sia ipotizzata un’azione circadiana, per individuare differenze di efficacia eseguendo il trattamento a specifiche ore del giorno. Verificherò inoltre eventuali differenze di tossicità nei tessuti maggiormente colpiti dagli effetti collaterali della chemioterapia: il tessuto emopoietico, il tratto gastrointestinale e i follicoli piliferi».

Quali saranno le possibili applicazioni, anche a lungo termine, per la salute umana?

«Stabilire gli orari ottimali di somministrazione per ciascun farmaco, nell'ambito della chemioterapia antitumorale, significa colpire le cellule cancerose durante la loro massima attività e allo stesso tempo rendere minimi gli effetti collaterali. Questo permetterebbe di massimizzare l’efficacia e la tollerabilità di farmaci già noti, con ovvi benefici per i pazienti ma anche dal punto di vista dei costi. Inoltre, capire meglio il funzionamento dei nostri ritmi fisiologici aprirà la strada allo sviluppo di nuovi farmaci in grado di resettare il sistema circadiano quando questo è alterato, aiutando a prevenire o curare tumori e altre malattie».

Sei mai stata all’estero per fare ricerca? Cosa ti ha spinto ad andare?

«Sì, sono stata alla University of California, Irvine (UCI), presso il laboratorio del professor Paolo Sassone-Corsi: uno dei massimi esperti di epigenetica, cicli circadiani e metabolismo. Fin dall’inizio del mio percorso scientifico ho sentito la necessità di fare un’esperienza in un centro di ricerca internazionale. Partire è sempre stato uno dei miei desideri più grandi per tanti motivi, in primis la curiosità scientifica e la volontà di imparare nuove tecniche di lavoro. Ma anche la voglia di far parte di un laboratorio multiculturale, dove gli scambi scientifici diventano anche un’occasione per conoscere il modo di affrontare la vita e il lavoro da parte di persone che vengono da paesi anche molto lontani dal nostro».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Ti è mancata l’Italia?

«É stata una grande opportunità di crescita personale e professionale. Dal punto di vista lavorativo ho acquisito innanzitutto la capacità di discriminare ciò che è importante da ciò che lo è di meno: questo mi ha dato molta sicurezza in me stessa. Inoltre ho avuto la possibilità di interagire con scienziati provenienti da ogni parte del mondo, alcuni dei quali sono diventati grandi amici. E poi ero a Orange County in California, dove c'è il sole quasi tutto l'anno e l'oceano è a cinque minuti dal laboratorio: difficile trovarsi male. Ovviamente mi è mancata molto la mia famiglia. Mio marito è rimasto in Italia per motivi di lavoro, e così ci siamo visti solo tre volte all'anno per circa quattro anni. É stata molto dura. Ma ci vuole un po' di coraggio se si vogliono esaudire i propri sogni, e lui mi ha aiutato a trovare la forza per andare fino in fondo. Mi dispiace davvero dirlo, ma l’Italia non mi è mancata molto. Anzi, quando sono tornata ho fatto tanta fatica a riabituarmi alla vita di tutti i giorni, e soprattutto allo scarso senso civico, che negli Stati Uniti è invece molto spiccato».

Ricordi l’episodio in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«Fin da piccola ero incantata dalla figura dello scienziato che lavora in laboratorio e cerca di scoprire il funzionamento della cellula. Poi, al primo anno di medicina, partecipai a un seminario del professor Pier Giuseppe Pelicci, ex studente dell'ateneo di Perugia (membro del comitato scientifico di Fondazione Veronesi, ndr). Parlò di oncologia molecolare in un'aula gremita di persone, descrivendo vie e meccanismi molecolari della cellula, geni coinvolti e mutazioni che causavano tumori. Restai estremamente affascinata e decisi definitivamente che la biologia molecolare sarebbe stata la mia strada».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Adoro l'euforia che si prova dopo un risultato positivo, sia nel caso in cui confermi una precedente ipotesi, sia quando apre nuove interpretazioni e nuove prospettive di studio nemmeno immaginate. É molto stimolante».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Le incredibili lungaggini burocratiche che bloccano mesi di ricerche produttive, la scarsità di fondi nella ricerca di base e soprattutto la frustrazione nel sentirsi, da ricercatori precari, così poco rappresentati».

Cosa ne pensi dei complottisti e delle persone contrarie alla scienza per motivi ideologici?

«Credo che un certo sentimento antiscientifico derivi dall'ignoranza sugli argomenti in questione, spesso trattati con superficialità anche da parte di chi fa informazione. Chi alimenta ideologie pseudoscientifiche punta a smuovere nelle altre persone sentimenti di paura e di sfiducia. Per fortuna oggi le sempre più numerose iniziative di divulgazione scientifica cercano di rimediare alla scarsa apertura al dialogo del mondo della scienza, per rendere chiari ed evidenti i risultati dei progressi scientifici degli ultimi decenni e l’importanza di batterci per difenderli piuttosto che sminuirne l'importanza».

In definitiva, se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Curiosità, progresso, futuro: ciò su cui il nostro paese ha bisogno di investire».

@AgneseCollino

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