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Oncologia
Serena Zoli
pubblicato il 24-02-2016

«Dopo il tumore resta la paura, ma si è più forti»



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Camilla, 26 anni, racconta la sua storia di coraggio contro l’osteosarcoma che l’aveva colpita quando era appena una ragazzina

«Dopo il tumore resta la paura, ma si è più forti»

«Il momento più brutto è stato un momento lungo. Quaranta giorni in cui non riuscivo a mangiare, proprio non ce la facevo, per la tossicità delle medicine che mi davano, lì, all’Istituto dei Tumori di Milano. Poi quando ho cercato di andare in bagno, sono svenuta. Allora mi sono sentita proprio al limite. Non era vero (per fortuna!) perché poi mi sono ripresa, m’è venuta una gran voglia di combattere e a ogni occasione - il mio compleanno, una festività - tappezzavo la mia stanza di grandi scritte su fogli di tutti i colori.

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DALLA DIAGNOSI ALLE TERAPIE

La storia è cominciata nel 2002, avevo 12 anni, e ci sono voluti sei mesi di analisi e di cambi di specialisti per capire che il mio male a una gamba così insistente e duraturo era un tumore dell’osso. Un osteosarcoma. Mi hanno ricoverata ad agosto, qui per prima cosa hanno puntato a ridurre la massa tumorale con la chemioterapia e così a novembre ero pronta per l’intervento che è stato fatto all’ospedale Gaetano Pini, specializzato in ortopedia. In parole povere, lo racconto così: mi hanno tolto un pezzo di femore e un pezzettino di tibia per poter inserire dentro l’osso una protesi di titanio. Dopo sono tornata all’Istituto, in totale ci sono stata un anno e mezzo (ma con la chemio ho chiuso solo nel 2004). Mentre ero lì, ho finito la terza media un po’ frequentavo e un po’ studiavo da lontano, poi verso la fine delle cure ho fatto un anno delle superiori. Ma non mi facevo certo vedere in giro, anche quando ero fuori dall’ospedale, era un po’ difficile parlare con i compagni, avevo la sensazione che non sapessero come trattarmi, impacciati oppure protettivi come con una bambina piccola. Mi isolavo.


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L'IMPORTANZA DELLA CONDIVISIONE

E isolata ero durante i ricoveri. I medici non ti lasciavano fare amicizia con i coetanei, una volta avevo visto una ragazzina come me, poi più incontrata. Erano contrari al crearsi di un gruppo perché se poi uno dei ragazzi non ce la faceva, temevano un effetto devastante sugli altri. Solo per i bambini c’era uno spazio apposito, giocavano insieme. Adesso è tutto cambiato: all’Istituto dei Tumori c’è un settore riservato agli adolescenti dove possono sentire musica, vedere film, è diversa la mentalità. E io, che non parlavo mai della mia malattia perché ti senti debole, diverso, oggi vado in giro a parlarne quando ci sono manifestazioni come quelle che organizza la Fondazione uMBERTO Veronesi per sensibilizzare giovani e giovanissimi e racconto la mia storia, mi mostro a 26 anni sana, vivace, con la gamba che funziona (certo, non per correre o per sciare) così da mostrare che di cancro si può guarire. E che bisogna vigilare sulla propria salute, non trascurando i segnali del nostro corpo. In effetti una campagna della Fondazione si intitola “#Fattivedere”: sottinteso, da un medico se ti senti qualcosa di strano.


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IL RAPPORTO COI GENITORI

Come hanno vissuto i miei genitori la mia malattia? Erano già separati. La mamma è quella che mi è stata più vicina (anche troppo, a volte tante attenzioni ti soffocano). Mio padre non ce la faceva a reggere e, dunque, faceva fatica a essere presente. Che cosa mi ha lasciato l’esperienza del cancro a tanti anni di distanza? Un fondo di paura, scatta un allarme appena mi sento qualcosa di strano. Ma, nello stesso tempo, quell’esperienza mi ha reso più forte degli altri. Sì, le due cose insieme».

 

Serena Zoli
Serena Zoli

Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.


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