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Oncologia
Daniele Banfi
pubblicato il 26-04-2017

Epatite C, nuovi antivirali e aumentato rischio cancro: un legame che non c'è



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Uno studio spagnolo mette in guardia dall'utilizzo dei nuovi farmaci in chi ha già avuto un cancro al fegato. I dati più ampi di altri studi però sembrano smentire questa ipotesi

Epatite C, nuovi antivirali e aumentato rischio cancro: un legame che non c'è

Oggi grazie ai farmaci antivirali diretti è possibile eradicare l'epatite C in massimo 12 settimane. Tutti gli studi presentati all'International Liver Congress concordano che eliminare il virus è di fondamentale importanza per migliorare la qualità di vita presente e futura delle persone affette. Eppure, nonostante queste incontrovertibili evidenze, un gruppo di ricerca spagnolo guidato da Jordi Bruix sta mettendo in dubbio l'utilizzo di queste molecole nei pazienti affetti da epatite C che in passato sono stati curati per tumore del fegato. Dubbi che in realtà, secondo diversi studi molto più ampi presentati al congresso, sembrano smentire l'ipotesi degli epatologi catalani dell'Hospital Clinic di Barcellona.

 

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I BENEFICI DEGLI ANTIVIRALI AD AZIONE DIRETTA

 «A differenza di pochi anni fa, dove per curare l'epatite C si somministrava interferone con scarso successo, oggi è possibile eliminare definitivamente il virus attraverso l'utilizzo degli antivirali ad azione diretta. L'efficacia di queste molecole, somministrate per 3 mesi, è prossima al 97%» spiega il professor Massimo Colombo, Direttore del Centro di Ricerca Traslazionale in Epatologia all'Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. Un'eradicazione che non significa solo essere liberi dalla malattia ma cambiare la storia clinica del paziente: «i benefici clinici dell'uso degli antivirali è incontestabile. Togliendo il virus dal corpo arrestiamo la malattia, preveniamo lo scompenso epatico, riduciamo la possibilità di insorgenza di carcinoma epatico, aumentiamo enormemente l'aspettativa di vita e, dato da sottolineare, nel 30% dei casi chi guarisce esce dalle lista d'attesa per trapianto di fegato» prosegue l'esperto.

 

 

ANCHE QUANDO ELIMINATO IL VIRUS DELL'EPATITE C LASCIA TRACCIA

Rimuovere il virus non significa però azzerare il rischio di tumore. Il cancro, per svilupparsi, ha bisogno di tempo e l'infezione con il virus dell'epatite C anche se viene eliminata può lasciare traccia. Proprio durante il congresso sono stati illustrati importanti dati che evidenziano questo aspetto: gli scienziati dell'Università di Strasburgo hanno dimostrato che nelle cellule del fegato di pazienti trattati con successo con gli antivirali si registra la presenza di modificazioni a livello epigenetico che possono predisporre allo sviluppo di carcinoma epatico nonostante il virus dell'epatite C non sia più presente. «Quando si parla di malati di cirrosi da virus C -prosegue Colombo- tra il 30 e il 40% dei casi la malattia è multifattoriale. All'epatite C spesso si associa l'obesità, il diabete e l'ipertensione. Se rimuovo il virus gli altri fattori rimangono e quindi la possibilità che si sviluppi un tumore a livello epatico non può azzerarsi».

 

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IL CASO SPAGNOLO

Discorso simile è quello relativo alla possibilità che il cancro al fegato si presenti nuovamente negli individui trattati con i nuovi farmaci. Uno studio condotto all'Hospital Clinic di Barcellona, realizzato da Jordi Bruix, ha infatti registrato che nel 27% dei casi trattati il tumore ritornava in maniera molto aggressiva nel giro di sei mesi dal termine del trattamento. Un percentuale ben maggiore rispetto al passato -quando si trattava solo con interferone- che ha indotto gli autori a mettere in guardia dal somministrare queste molecole. Eccesso di prudenza o dati fuorvianti? «Nei pazienti a cui viene tolto un tumore al fegato e non vengono trattati per epatite C la probabilità che il tumore si ripresenti entro cinque anni è del 75%. Trattandoli la ricorrenza del tumore -ovvero la possibilità che si ripresenti- è più bassa ma comunque c'è ancora per le stesse ragioni esposte precedentemente» spiega Colombo. Come interpretare allora i risultati dello studio spagnolo? «Il vero problema sono i dati di partenza. Oggi le persone trattate, a differenza del passato, sono le più gravi. Non solo, la diagnosi di guarigione non sempre è univoca. C'è un problema di accuratezza diagnostica. Oggi, con l'ausilio della tecnologia che legge le immagini della risonanza, le diagnosi di presenza di cellule tumorali sono il 30% in più rispetto a quelle fatte dall'occhio umano. Ecco perché i dati di partenza possono essere sbagliati e in alcune persone il tumore era già presente ma non visibile prima del trattamento antivirale. Una situazione che potrà essere chiarita solamente con ulteriori studi prospettici, ovvero studi disegnati appositamente con dati nuovi e non attinti nel passato come il caso spagnolo».

 

I BENEFICI SULL'UTILIZZO DEGLI ANTIVIRALI SONO INCONTESTABILI

Ma se è il fattore tempo quello che dipanerà ogni dubbio già ora cominciano ad arrivare i primi risultati dell'inconsistenza della tesi del presunto legame tra antivirali e ritorno del cancro al fegato. I primi dati -numericamente molto più ampi dello studio spagnolo e che hanno coinvolto più gruppi di ricerca indipendenti fra loro- parlano chiaro: con gli antivirali diretti le probabilità di sviluppare un cancro del fegato, o la possibilità che si ripresenti, sono minori nei pazienti trattati con i nuovi farmaci. Le possibilità che un tumore si sviluppi dipendono in buona parte da fattori di rischio quali la durata dell'infezione da epatite, il grado di infiammazione e la presenza di altre patologie correlate. «Anche se si guarisce dall'epatite -conclude Colombo- in alcuni si può registrare lo sviluppo di tumori molto aggressivi. Ma proprio perché si tratta di rari casi questo non significa che bisogna abbandonare le cure con gli antivirali poiché i benefici clinici sono evidenti. Da quando abbiamo a disposizione i farmaci contro l'epatite C le liste di attesa per trapianto di fegato dovuti a insufficienza epatica si sono ridotte del 40%. Un vantaggio irrinunciabile se si pensa che in passato, in seguito a trapianto, la mortalità associata al virus dell'epatite C a 5 anni era del 35%. Oggi non è più così perché la malattia viene eliminata».

 

Daniele Banfi
Daniele Banfi

Giornalista professionista è redattore del sito della Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.


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