Alla ricerca di nuove molecole predittive per il tumore il più diffuso al mondo negli uomini. Questo il lavoro svolto a Milano da Antonino Bruno, sostenuto da una borsa di ricerca della Fondazione Umberto Veronesi
Il cancro della prostata è il tumore più diffuso tra gli uomini e la seconda causa di mortalità oncologica maschile nel mondo occidentale. La percentuale di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è tuttavia molto alta: superiore al novanta per cento. Un gran passo avanti, anche solo rispetto a vent’anni fa, in cui il dato si assestava intorno al sessanta per cento. Il grande merito si deve alle tecniche di diagnosi precoce, per identificare il tumore in fase iniziale e poter intervenire con successo con la chirurgia o con terapie farmacologiche e ormonali.
Il test del Psa (Antigene Prostatico Specifico) costituisce uno dei principali biomarcatori per questo tumore. Si esegue e un semplice prelievo di sangue e si dosa l’antigene: i suoi livelli aumentano in funzione del comportamento della prostata, ad esempio in caso di tumore. Tuttavia, alti livelli di Psa sono riscontabili anche durante infiammazioni, infezioni o iperplasia benigna della prostata. Per questo sono sempre più necessari nuovi approcci diagnostici, di intervento terapeutico e di prevenzione. Su questo sta lavorando Antonino Bruno (nella foto), biotecnologo ricercatore presso il Polo Scientifico e Tecnologico del Gruppo MultiMedica di Sesto San Giovanni (Milano) e sostenuto nel 2016 da una borsa di ricerca Fondazione Veronesi nell’ambito del progetto SAM-Salute al maschile.
Antonino, ci racconti nei dettagli i contenuti della tua ricerca?
«Il mio progetto prevede la valutazione di come l’infiammazione e l’angiogenesi, cioè la formazione di nuovi vasi sanguigni intorno al tumore, siano coinvolti nella progressione del carcinoma prostatico. L’approccio metodologico prevede di considerare come bersaglio per la chemo-prevenzione non solo la cella tumorale, ma anche le cellule endoteliali che costituiscono i vasi sanguigni con i quali il tumore ricava il suo nutrimento e si costruisce i “binari” per colonizzare nuovi organi. In particolare, mi focalizzo sul ruolo delle carnitine, molecole più abbondanti in soggetti sani rispetto a pazienti con carcinoma prostatico: questo suggerisce una potenziale funzione protettiva sul tumore e sulla pre-formazioni di vasi “cattivi” tumorali. Il mio scopo è capire come, e se possano essere sfruttati come nuovi biomarcatori e strumenti di chemoprevenzione per il carcinoma prostatico».
Perché hai scelto la strada della ricerca?
«È un lavoro dove staticità e monotonia non esistono. Ho capito di voler fare ricerca quando durante le lezioni di biochimica e patologia i miei professori hanno visto che in me c’era lo spirito del ricercatore, e mi hanno incoraggiato in quella direzione».
Come ti vedi fra dieci anni?
«Vorrei avere il mio laboratorio, con i miei progetti e finanziamenti, con un gruppo di giovani ricercatori a cui insegnare ma anche da cui imparare».
Cosa ti piace di più della ricerca?
<«L’elasticità mentale, la versatilità, il continuo mettersi in discussione, il fatto che appena hai “risolto” un problema se ne pone già un altro, pronto a stimolare le tue idee e strategie per comprenderlo».
E cosa invece eviteresti volentieri?
«Sarò banale: lo stipendio basso. Ricercatore sì…ma a chi non piace la stabilità economica? Ah sì: poi siamo in Italia, i ricercatori dovrebbero essere più apprezzati».
Quale figura ha ispirato la tua vita?
«Mia zia, deceduta per cancro. Fino all’ultimo respiro ha pensato ad aiutare gli altri, mettendo se stessa in secondo piano».
Quale sarà il settore della ricerca che a tuo avviso sarà più promettente nei prossimi decenni?
«La ricerca di biomarcatori precoci e predittivi, qualunque sia la patologia. Lo sviluppo di nuove terapie è importante, ma mai quanto poter prevenire una patologia quando anche un singolo “interruttore di allarme” e molto lontano si accende».
Pensi che la scienza abbia dei «lati oscuri»?
«Mi fa molto arrabbiare l’ignoranza intorno alla ricerca, spesso alimentata da ingiustificato fanatismo, di chi giudica la ricerca inutile o solo un mezzo che raccogliere soldi. Mi capita di percepire questi sentimenti quando partecipo a eventi solidali di raccolta fondi e sento persone bisbigliare che i soldi raccolti non vanno realmente alla ricerca».
Come pensi che si possa arginare l’ondata di sentimento antiscientifico che si sta diffondendo nel nostro Paese, ad esempio gli anti-vaccinisti?
«Credo che sia compito anche di noi ricercatori fare chiarezza sulle tematiche scientifiche, non rispondendo con la stessa moneta degli estremisti, ma coinvolgendo le persone nel nostro lavoro. A volte credo che i laboratori dovrebbero prendersi il tempo per mostrare a tutti, dall’avvocato al politico alla casalinga cosa facciamo e come questo sia realmente utile per la vita di tutti».
Chiara Segré
Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.