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Francesca Borsetti
pubblicato il 21-02-2022

Glioblastoma: una navetta per trasportare i farmaci con precisione



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Marco Pizzocri, ricercatore sostenuto da Fondazione Veronesi, studia un nuovo modo per veicolare meglio i chemioterapici all'interno del tumore

Glioblastoma: una navetta per trasportare i farmaci con precisione

Il glioblastoma è uno dei tumori cerebrali più comuni e aggressivi. Ha origine dalle cellule della glia, che svolgono una funzione di sostegno per i neuroni e colpisce ogni anno circa 3-4 persone ogni 100 mila, di solito tra i 45 e i 75 anni di età. La chirurgia rappresenta la principale strategia di cura, attraverso cui si procede alla rimozione del tessuto malato. Nella maggior parte dei casi la chirurgia è seguita dalla radioterapia e dalla chemioterapia, che purtroppo non risultano sempre efficaci nel bloccare la progressione tumorale. I classici chemioterapici introdotti nel circolo sanguigno raggiungono infatti con difficoltà i tessuti cerebrali, a causa dell’impermeabilità di una struttura chiamata barriera ematoencefalica. Studi recenti hanno evidenziato che questa barriera può essere attraversata da piccole vescicole lipidiche opportunamente modificate per raggiungere le cellule bersaglio.

Marco Pizzocri è ricercatore presso l’Istituto Clinico Humanitas di Milano. Studia una strategia terapeutica a base di nanoparticelle per veicolare il farmaco oltre la BEE e raggiungere le cellule tumorali. In combinazione con la radioterapia, questa nuova tecnologia potrebbe migliorare l’efficacia dei trattamenti nei pazienti affetti da glioblastoma, limitandone gli effetti collaterali. Il suo progetto sarà sostenuto per il 2022 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi.

Marco, come nasce l'idea del vostro progetto?

«Nel laboratorio in cui lavoro c’è un’elevata conoscenza della struttura e della fisiologia del cervello umano e da quando sono qui ho acquisito una buona conoscenza dei tumori al sistema nervoso centrale. L’idea del nostro studio è di combinare queste conoscenze per ottenere un metodo più efficace per il trattamento del glioblastoma».

Perché avete scelto di orientarvi su questa linea di ricerca?

«Il glioblastoma è tutt’ora un tumore incurabile: trovare una cura per migliorare la speranza di vita dei pazienti è fondamentale. Ogni sforzo verso questo obiettivo può essere un passo verso la cura definitiva della malattia. Noi crediamo che le nanoparticelle possano rappresentare uno di questi passi».

Quali sono gli aspetti poco noti della malattia che vorreste approfondire?

«Uno degli elementi poco noti è come si comportano e che aspetto hanno le cellule che invadono il cervello sano e che, di fatto, causano la ricaduta del glioblastoma nei pazienti. Vorremmo capire come queste cellule si muovono e reagiscono in contatto con la parte sana del cervello, per poter individuare il punto debole con cui colpirle ed eliminarle».

Come intendete condurre il vostro progetto quest’anno?

«Il progetto è agli albori. Cercheremo di valutare l’efficienza delle nanoparticelle in vitro, sperimentandole su cellule di glioblastoma donate dai pazienti che hanno subito l’asportazione del tumore. C’è una grande aspettativa su queste nanoparticelle e noi crediamo possano essere realmente efficaci».

Sei mai stato all’estero per un’esperienza di ricerca?

«No, non sono mai andato, principalmente per due motivi. Il primo è che durante il mio dottorato mi sono sposato e devo giustamente tener conto delle esigenze famigliari. La seconda è che credo fermamente nella ricerca in Italia e che sia mio dovere continuare a lavorare in questo Paese».

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Ho sempre desiderato occuparmi di scienza. Mio padre è perito chimico e da bambino mi ha fatto giocare con vetreria, cartine tornasole e microscopi. A differenza sua, mi ha sempre affascinato la biologia e la comprensione del funzionamento degli organismi. La decisione vera e propria l’ho presa alle superiori».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Della ricerca mi piace che è in movimento e mutevole. Ogni anno escono scoperte nuove e la conoscenza tecnica in aggiornamento permette di ottenere risultati nuovi e sempre più sorprendenti, fino a pochi anni prima nemmeno immaginabili. Far parte di questo mondo mi rende curioso ed entusiasta, mi sprona a dare il mio contribuito nella lotta contro malattie tuttora incurabili».

Marco, c’è una figura che ti ha ispirato nella tua vita professionale?

«È Rita Levi Montalcini. Ho avuto la fortuna di incontrarla due volte e mi ha enormemente colpito».

Qual è l’insegnamento più importante che ti ha lasciato?

«La sua passione per il suo lavoro e la totale mancanza di arroganza, che si può riassumere in questa sua frase: “La mia intelligenza? Più che mediocre. I miei unici meriti sono stati impegno e ottimismo”».

Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«Probabilmente mi sarei laureato in chimica o in botanica e sarei andato a lavorare per un’azienda».

In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?

«La comunicazione verso la società è sempre stato un tallone d’Achille della scienza. Al giorno d’oggi ciò è tristemente evidente, vista la diffusione di teorie pseudoscientifiche e come la gente sia disposta a crederci. Se la scienza può migliorare in qualcosa è senza dubbio nella comunicazione verso chi non è del settore. Un aiuto potrebbe arrivare dai ricercatori stessi, che a mio avviso dovrebbero mettersi in gioco di più nelle iniziative di divulgazione».

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«Credo ci sia un fortissimo senso antiscientifico in Italia, che la pandemia ha esacerbato ulteriormente. La fiducia nei confronti dei ricercatori è incredibilmente calata a causa delle dichiarazioni confuse e contraddittorie rilasciate da diversi esperti e spesso riportate in maniera erronea».

Cosa fai nel tempo libero? Hai qualche hobby?

«Sono un appassionato di modellismo e giochi in scatola: posso essere considerato un nerd a tutti gli effetti, da questo punto di vista. Mi piace molto anche andare in bicicletta e fare trekking».

Hai famiglia?

«Sono sposato, ma non ho figli».

Se un giorno tuo figlio ti dicesse di voler fare il ricercatore, come reagiresti?

«Sarei orgoglioso della sua scelta e lo spronerei a perseguire i suoi scopi con passione».

Quando è stata l’ultima volta che hai pianto?

«È successo l’autunno scorso, al funerale del padre di una mia collega».

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita?

«Mi piacerebbe moltissimo fare un viaggio oltre il circolo polare per vedere l’aurora boreale».

Sei felice soddisfatto della tua vita?

«Sono abbastanza soddisfatto della mia vita: credo di aver raggiunto un buon equilibrio tra vita lavorativa e famiglia».

La cosa che più ti fa arrabbiare?

«Il disordine».

Il libro che più ti piace?

«Il mio libro preferito è “Le cosmicomiche” di Italo Calvino. Trovo geniale come sia riuscito a costruire storie originali partendo da un aspetto scientifico».

Una “pazzia” che hai fatto?

«Dormire fuori dalla stazione di Roma Termini dopo un concerto dei Muse visto insieme a mia sorella».

Con chi ti piacerebbe andare a cena una sera e cosa ti piacerebbe chiedergli?

«Mi sarebbe piaciuto poter cenare con Alex Zanardi e chiederli cosa gli ha dato la forza di reagire in questo modo».

Prima di salutarci: vorresti dire qualcosa a chi sceglie di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Credo che queste persone sappiano già quanto sia fondamentale il loro contributo. Magari sono passate attraverso esperienze di sofferenza a causa di un tumore e hanno trovato conforto sapendo di ricevere il meglio delle cure grazie al sostegno alla ricerca scientifica. A queste persone non serve dire nulla che già non sappiano, basta dire loro GRAZIE».


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