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Neuroscienze
Serena Zoli
pubblicato il 11-05-2022

Fra gli infartuati il rischio di Parkinson non aumenta, anzi



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Ben 182.000 infartuati seguiti per 20 anni: meno casi di Parkinson rispetto alla media. Stimolo per nuove ricerche

Fra gli infartuati il rischio di Parkinson non aumenta, anzi

Le persone che hanno avuto un infarto hanno, negli anni, un rischio aumentato di ictus e di demenza vascolare; in compenso, diciamo, una ricerca danese mostra che potrebbero avere meno probabilità di sviluppare il Parkinson rispetto alla popolazione generale. Significa che l'infarto protegge dal Parkinson? Niente affatto, non si tratta di un nesso causale, piuttosto di una correlazione che stimola domande e nuove ricerche.

Lo studio è stato pubblicato sul Journal of the American Heart Association. La malattia di Parkinson è un disordine cerebrale caratterizzato dalla progressiva perdita del movimento fisico, da tremori, dalla parlata che diventa lenta o biascicata; ci può anche essere rigidità nel camminare e altre attività fisiche. Non ci sono cure per il Parkinson, che genera pure mutazioni nei comportamenti, depressione, perdita della memoria e fatigue. Il Parkinson secondario, vale a dire causato da altre patologie, ha sintomi analoghi e può essere causato da un ictus, farmaci per problemi psichiatrici o cardiovascolari. «Abbiamo prima trovato che in seguito a un infarto cardiaco è notevolmente aumentato il rischio di complicazioni neurovascolari come un ictus ischemico o la demenza vascolare: dati questi presupposti, trovare un minore rischio di Parkinson ci ha sorpresi non poco», dice il responsabile della ricerca Jens Sundboll, del Dipartimento di Epidemologia e Cardiologia clinica dell’Università di Aarhus, in Danimarca.

ESAMINATI I DATI DI 182.000 INFARTUATI 

Che continua: «I nostri risultati mostrano che il rischio di ammalarsi di Parkinson è quantomeno non aumentato in seguito a un infarto cardiaco ed è già una rassicurazione per il paziente e i medici». Gli studiosi di Aarhus si sono rifatti ai registri del Servizio di Sanità nazionale danese e hanno confrontato sia il rischio di Parkinson sia il rischio secondario della malattia in 182.000 pazienti che avevano subito un primo attacco cardiaco tra il 1995 e il 2016, persone di età media di 71 anni e per il 62 per cento maschi. Per il confronto si è seguito un gruppo di controllo di oltre 900 soggetti in analoghe condizioni, ma mai toccati da problemi cardiaci.

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PAZIENTI SEGUITI PER 21 ANNI

Questa folta compagine di pazienti sono stati seguiti per 21 anni addirittura ed ecco quanto è emerso:

  • un 20 per cento in meno del rischio di sviluppare il Parkinson in quanti avevano avuto un infarto rispetto al gruppo di controllo
  • un 28 per cento in meno di rischio secondario di parkinsonismo tra quanti avevano avuto un infarto cardiaco.

Sempre il dottor Sundboll osserva: «Ai medici che curano pazienti colpiti da infarto questi risultati indicano che la riabilitazione cardiaca deve puntare a prevenire ictus ischemici, la demenza vascolare e altri disturbi cardiovascolari come un altro infarto o un’insufficienza cardiaca. Sono i punti su cui devono concentrarsi dato che il rischio di Parkinson pare diminuito in questi pazienti in confronto alla popolazione generale».

FATTORI DI RISCHIO A CONFRONTO

L’infarto cardiaco e il Parkinson condividono alcuni fattori di rischio, con un rischio maggiore rilevato tra gli uomini anziani e un rischio minore tra quanti bevono più caffè e fanno più attività fisica. È interessante tuttavia osservare che taluni rischi classici per un infarto – come fumare, il colesterolo alto, la pressione arteriosa alta e il diabete 2 – appaiono associati a un minore rischio di Parkinson. 

CORRELAZIONI CHE STIMOLANO NUOVE RICERCHE

«Ci sono ben poche malattie al mondo – nota Sundboll – per le quali il fumo diminuisce il rischio: uno è il morbo di Parkinson e un altro è la colite ulcerosa. Per il resto il fumo aumenta il rischio delle più comuni patologie inclusi il cancro, i disturbi cardiovascolari e polmonari e, in generale, non fa proprio bene alla salute». Di primo acchito questi risultati lasciano perplessi. È questo che pare di cogliere nella voce della dottoressa Anna Zecchinelli, neurologa presso il Centro Parkinson e parkinsonismi all’Asst-Cto di Milano. Tuttavia dichiara: «È una ricerca valida, si impone per l’impatto dell’alto numero delle persone esaminate e per il lungo tempo in cui sono state seguite. E’ stata ben condotta, tutta su base epidemiologica per cui non ci sono dati del genere causa-effetto. Solo confronti di ricorrenze». E prosegue: «Certo che il 20 e il 28 per cento in meno di Parkinson e parkinsonismo sono cifre che stupiscono. Sì, ci sono stati altri studi che segnalavano tabacco e colesterolo come "protettivi"… È un tema da approfondire e questa ricerca di soli numeri risulta stimolante, spinge a voler capire perché avvengano queste correlazioni».

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Serena Zoli
Serena Zoli

Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.


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