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Neuroscienze
Roberta Altobelli
pubblicato il 26-03-2024

Le strategie per rallentare la corsa dell’Alzheimer


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Anche se non esistono ancora cure definitive per la malattia di Alzheimer, aumentano le terapie per rallentarne il decorso e migliorare la qualità della vita

Le strategie per rallentare la corsa dell’Alzheimer

La malattia di Alzheimer, per i pazienti e per i caregiver, rappresenta una sorta di corsa in bicicletta, in cui si deve affrontare una ripida discesa. A differenza di una corsa, tuttavia, i pazienti desiderano arrivare a fondo valle il più tardi possibile. Al momento, infatti, non sono disponibili cure definitive per questa condizione, ma quello che i ricercatori cercano di fare è appunto rallentare il più possibile la corsa, ponendo dei freni o prendendo strade che abbiano una minore pendenza. Nel frattempo, oggi, è possibile anche migliorare la qualità di vita dei pazienti e dei loro cari, grazie a diversi tipi di farmaci che permettono di ridurre i sintomi della malattia e di percorrere la discesa nel modo migliore. Giovanni Battista Frisoni, professore di Neuroscienze Cliniche presso l’Università di Ginevra, ci ha aiutato a fare il punto sulle possibilità terapeutiche che le persone con malattia di Alzheimer hanno oggi a disposizione e sulle prospettive future di trattamento.

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I TRATTAMENTI SINTOMATICI 

La malattia di Alzheimer è un disturbo neurodegenerativo che peggiora nel tempo ed è la causa più comune di demenza. In particolare, è caratterizzata da cambiamenti nel cervello che portano a depositi di determinate proteine che causano un danno alle funzioni cerebrali. La patologia si manifesta tipicamente con un graduale declino della memoria, del pensiero, del comportamento e delle abilità sociali, con un impatto significativo sulla qualità della vita. «I farmaci attualmente disponibili sono detti “sintomatici” perché non lavorano direttamente sulle proteine il cui accumulo nel cervello causa la malattia. Non sono in grado di modificare l’evoluzione a lungo termine della patologia, ma soltanto le sue conseguenze sul cervello» spiega il professor Frisoni.,. «In particolare – prosegue -, i farmaci attualmente utilizzati agiscono sul sistema colinergico e glutammatergico, due dei principali neurotrasmettitori che il cervello utilizza per rendere possibile la comunicazione a livello delle sinapsi. Il risultato del trattamento è che la progressione della malattia, che normalmente è una curva discendente e grosso modo lineare, viene spostata in avanti di 6-18 mesi. Dal momento che la pendenza non cambia, i pazienti toccano i vari stadi della demenza (lieve, moderata, severa) 6-18 mesi dopo rispetto a quanto sarebbe accaduto senza farmaci. Non si tratta di un guadagno stupefacente, ma è comunque un risultato che numerosi pazienti considerano significativo».

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I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO

Ricorda ancora il professor Frisoni: «I pazienti con malattia di Alzheimer non hanno solo disturbi cognitivi, come la perdita della memoria, ma possono presentare anche disturbi del comportamento, come disturbi del sonno, irrequietezza, incapacità di stare da soli, allucinazioni e depressione. Anche per questi problemi esistono farmaci che possono migliorare significativamente la qualità della vita dei pazienti e dei familiari. Possono avere, però, degli eventi avversi importanti e per questo devono essere utilizzati adeguatamente e secondo le indicazioni del medico».

 

NON SOLO FARMACI

I medicinali per trattare i sintomi della malattia di Alzheimer rappresentano solamente una parte dell'assistenza alla persona affetta da demenza. Altri trattamenti non farmacologici, attività e supporto – non solo per il malato, ma anche per i caregiver e le persone care – sono altrettanto importanti per aiutare le persone ad avere una buona qualità della vita. Ad esempio, la terapia di stimolazione cognitiva (CST) prevede la partecipazione ad attività di gruppo ed esercizi progettati per migliorare la memoria e le capacità di risoluzione dei problemi. Il paziente può anche lavorare sulla reminiscenza, parlando di eventi del passato e della storia della sua vita, raccogliendo foto, appunti e ricordi, a partire dall’infanzia. Questi approcci sono talvolta combinati tra loro ed è stato dimostrato che possono migliorare l’umore e il benessere dei pazienti. «Tra le terapie non farmacologiche ricordiamo la light therapy per i disturbi del sonno, la musicoterapia e la cromoterapia per contenere l’agitazione, la terapia della bambola per l’agitazione del paziente severo, la pet therapy, anche questa utile per ridurre l’agitazione. Sono tutte strategie che possono avere un impatto positivo, se utilizzate nel momento giusto della storia della malattia» aggiunge il professor Frisoni.

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L’IMPORTANZA DEGLI STILI DI VITA

«Inoltre, gli stili di vita possono contribuire significativamente a rallentare la corsa della patologia. È importante mantenere il cervello attivo, stimolato. Tutto è nutrimento per il cervello e lo mantiene in vita, gli stimoli esterni sono fondamentali. Una corretta alimentazione, la stimolazione psicosociale, camminare o praticare una attività fisica e, non da ultimo, eliminare sostanze tossiche come fumo e alcol, o farmaci che possono essere tossici per alcuni pazienti in precise fasi della terapia, sono accorgimenti fondamentali per aiutare il paziente a stare meglio» raccomanda ancora lo specialista.

 

PRENDERSI CURA DI CHI CURA

In questo contesto, è importante anche non sottovalutare il ruolo dei caregiver e dei familiari: «L’erogatore più importante dei trattamenti non farmacologici è la famiglia, sono i caregiver che vivono tutto il giorno col paziente. Le persone con demenza possono manifestare infatti irritabilità e aggressività mai manifestate prima della malattia. Spesso viene persa la capacità di ragionamento logico e di capire le ragioni delle persone vicine. Il caregiver, quindi, può avere difficoltà nel comprendere questi comportamenti, che sono dovuti alla malattia, e reagire in modo scomposto e inopportuno alle difficoltà del paziente. In queste circostanze, la terapia non farmacologica è la psico-educazione del caregiver, una specie di “percorso di consapevolezza” circa i cambiamenti cui va incontro il cervello dei loro cari a causa della malattia. È necessario comprendere che sono quindi i caregiver a dover cambiare e adattarsi al paziente e che possono imparare strategie che permettono di gestire il loro caro nel modo migliore, stargli vicino e spesso migliorare drasticamente la sua qualità della vita».

 

PERCHÉ È DIFFICILE TROVARE UNA CURA DEFINITIVA

La difficoltà nel trovare un trattamento che permetta di guarire definitivamente la malattia di Alzheimer e le altre forme di demenza risiede nella natura stessa del nostro cervello, che è un organo enormemente complesso: «Possiamo immaginare il nostro cervello come internet: noi inseriamo un indirizzo e veniamo portati su un sito, ma il percorso che il browser usa per portarci su quel determinato sito è imprevedibile, perché dipende dal traffico nella rete. Il cervello ha un funzionamento simile e può, quindi, usare dei percorsi alternativi per compiere una stessa azione. Tuttavia, così come il cervello ha tante strade per ottenere lo stesso risultato comportamentale, ci sono anche tante strade per guastarlo» spiega Frisoni. «Un disturbo della memoria può avere moltissime cause diverse. Quindi, per intervenire alla radice delle demenze, negli anni, abbiamo prima dovuto capire quale fosse la causa più frequente, che abbiamo scoperto essere la malattia di Alzheimer, con l’accumulo delle proteine β-amiloide e tau. Ma non solo: quella che 30 anni fa chiamavamo “malattia di Alzheimer” abbiamo scoperto essere in realtà una famiglia di malattie che comprende la demenza da corpi di Lewy, causata dall’accumulo delle alfa-sinucleina, la forma Late (Limbic-predominant Age-related TDP-43 Encephalopathy, causata dall’accumulo di TDP-43, la demenza fronto-temporale, e, ovviamente, la malattia di Alzheimer propriamente detta. Abbiamo cominciato, quindi, a capire le diverse vie che possono portare allo stesso danno e questa comprensione è ancora in corso».

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COSA CI ASPETTA IN FUTURO

La ricerca continua a esplorare una varietà di approcci innovativi per trattare i processi patologici sottostanti la malattia di Alzheimer e le altre forme di demenza e permettere alle persone affette di percorrere sempre più lentamente la loro discesa, arrivando ad arrestarla del tutto con una cura definitiva. Gli studi clinici in corso includono, ad esempio, l’immunoterapia. «Abbiamo capito che l’accumulo della proteina β-amiloide è un aspetto centrale nello sviluppo della malattia di Alzheimer. Attualmente, sono stati sviluppati farmaci che agiscono sull’amiloide provocando un’eliminazione pressoché completa della sostanza dal cervello, rallentando la progressione della malattia. Si tratta, quindi, di farmaci in grado di modificare la pendenza della discesa. Negli studi clinici in corso, abbiamo pazienti che in 6 anni non sono progrediti per nulla, ma questi farmaci, che sono già in uso negli Stati Uniti, non funzionano in tutti i pazienti. Sappiamo anche che oltre alla β-amiloide, anche le altre proteine neurotossiche si depositano frequentemente nei malati di Alzheimer. Quindi, intervenire solo sull’amiloide non sarà sufficiente per molti pazienti. La sfida dei prossimi anni sarà quella di chiarire tutte le vie metaboliche che portano alla neurodegenerazione e di trattare ogni paziente con il mix di farmaci più appropriato. Infatti, sono in fase di sviluppo anche altri trattamenti diretti contro vie differenti, ad esempio la proteina tau, l’alfa-sinucleina, la TDP-43, l’infiammazione, il danno ossidativo mitocondriale ed altre ancora. Tutti meccanismi alla base della malattia, che cercheremo di capire sempre meglio per agire in modo personalizzato nei singoli pazienti» afferma Frisoni.

 

LA DIAGNOSI PRECOCE

In questo percorso la diagnosi precoce, altro ambito in cui i ricercatori di tutto il mondo si danno molto da fare, ha un ruolo fondamentale: «Ci sono pazienti trattati con farmaci anti amiloide in cui la malattia ha avuto una progressione sorprendentemente lenta, anche se hanno iniziato la terapia quando presentavano già alcuni sintomi, come disturbi della memoria significativi. Proviamo a immaginare se avessimo potuto diagnosticare la loro malattia ancor più precocemente, nel primissimo inizio dei disturbi, e li avessimo subito trattati. In quel caso, probabilmente, sarebbero rimasti stabili in una fase ancora più precoce della malattia e avrebbero potuto avere una qualità di vita ancora migliore. La ricerca va avanti per raggiungere tutti questi obiettivi e trasformare la discesa in una comoda strada pianeggiante» conclude il professor Frisoni.

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