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Neuroscienze
Redazione
pubblicato il 13-11-2012

Se non sei libero di scegliere la tua condotta non sei colpevole e quindi non punibile



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Alcune indagini nel campo delle neuroscienze mettono in dubbio l’idea dell’autodeterminazione dell’individuo. Se si parte dal presupposto che il reo agisce sotto impulsi violenti che non sa controllare cadrebbe il concetto di responsabilità e quindi la ragione del punire

Se non sei libero di scegliere la tua condotta non sei colpevole e quindi non punibile

Il primo di una serie di approfondimenti in vista della Conferenza Mondiale di Science for Peace. Alcune indagini nel campo delle neuroscienze mettono in dubbio l’idea dell’autodeterminazione dell’individuo. Intervista a Ombretta Di Giovine

Ombretta Di Giovine, nata a Foggia nel 1968, fa parte di quella generazione di giovani giuristi che interpretano il diritto alla luce di tutta la complessità della società moderna. Laureatasi nel 1992 con una tesi (110 e lode) sull’insider trading, cioè su un reato che consiste nell’avvalersi d’informazioni riservate per lucrare sul mercato, Di Giovine è professore ordinario presso la facoltà di giurisprudenza dell’università di Foggia, dove insegna attualmente diritto penale e diritto penale dell’economia.

E’ autrice di libri che affrontano i problemi giuridici da punti di vista originali e controcorrente, tra cui quello dal titolo Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica e neuroetica (Giappichelli editore) annuncia il suo interesse di ricercatrice per un diritto penale al passo con le conquiste delle neuroscienze. Parteciperà alla tavola rotonda, moderata da Mario Calabresi, su "Perché punire? La sanzione penale nella prospettiva della scienza contemporanea".

Professoressa  Di Giovine, partiamo da un caso avvenuto nel 2007 a New York. Un noto giornalista, affetto da schizofrenia, venne processato per sequestro di persona, violenza sessuale e rapina. La difesa ottenne dalla Corte l’autorizzazione a una scansione cerebrale con risonanza magnetica,  e presentò i risultati alla giuria, collegando la schizofrenia di Braunstein  alla sua incapacità di controllare gli impulsi violenti. Ma il verdetto fu ugualmente di piena condanna. In che misura la scienza può influire sull’imputabilità di una persona? 

Il nostro sistema penale prevede delle ipotesi per cui una persona che è ritenuta “non imputabile” non viene punita, e analogamente dispongono altri ordinamenti. Le neuroscienze non sono risolutive, ma possono aiutarci a rendere più oggettiva la valutazione. Penso che un buon uso delle acquisizioni scientifiche, che non ceda alla tentazione di semplificare troppo, possa consentire una comprensione più profonda e forse meno ideologicamente condizionata dei problemi giuridici. 

La risonanza magnetica del cervello viene attualmente ammessa dai giudici con una certa frequenza, in quanto potenzialmente rilevante per avere informazioni di tipo comportamentale sull’imputato. Le neuroscienze servono a “oggettivizzare”, per così dire, le pulsioni che hanno portato al reato, oppure intaccano il concetto della responsabilità penale?

Secondo alcuni autori, alcune indagini nel campo delle neuroscienze revocherebbero in dubbio l’idea dell’autodeterminazione dell’individuo. Se si parte dal presupposto che il reo non è libero di scegliere la sua condotta, cadrebbe il concetto di responsabilità, e quindi la ragione del punire. Ne discenderebbe anche l’inutilità di un percorso di recupero.

Un vero terremoto etico e giuridico. La libertà di autodeterminazione non costituisce il fondamento stesso della punibilità? 

Penso che argomentazioni di quel  tipo siano in parte frutto di semplificazione. D’altronde, molti autori la pensano in modo diverso, e comunque il nostro sistema penale si fonda sull’idea di una libertà non assoluta, ma pur sempre condizionata.

Qual è allora il vero beneficio che possono dare le neuroscienze?  

Le neuroscienze possono servire a chiarire meglio le condizioni alle quali l’individuo è colpevole e quindi punibile, ma anche a verificare le possibilità reali di un suo recupero. Nell’una come nell’altra prospettiva, ritengo che il diritto abbia qualcosa da imparare dalla letteratura scientifica. Penso, per esempio, al ruolo e all’importanza delle emozioni, che il diritto ha sempre invece considerato un fattore di distorsione e rispetto alle quali ha quindi mostrato una tradizionale chiusura.

E’ possibile la funzione rieducativa della pena, nell’attuale situazione carceraria? E non contrasta pesantemente con questa funzione continuare ad applicare l’ex art.41 bis, cioè il carcere duro?

Nella situazione in cui sono le carceri, bisognerebbe almeno assicurare l’umanità della detenzione, con ampliamenti e ristrutturazioni, ma si tratta di un problema noto. In quanto al trattamento previsto dall’ex art.41 bis, avrebbe dovuto essere a tempo ed è poi diventato a regime.  Il 41 bis è stato pensato in funzione della mafia, e delle misure di isolamento per impedire i contatti tra i mafiosi sia all’interno che all’esterno delle carceri e risponde ad esigenze di difesa sociale. E’ chiaro che queste precauzioni rischiano di portare all’abbrutimento del condannato. Per questo, dovrebbero essere disposte esclusivamente nei casi più gravi e soprattutto in presenza di requisiti più certi.

Antonella Cremonese


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