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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 06-03-2019

Addio a Lo Coco: «Ha cambiato la storia della leucemia fulminante»



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L'ematologo Francesco Lo Coco, scomparso domenica, ha rivoluzionato la cura della leucemia promielocitica acuta. «Va via un protagonista della lotta al cancro»

Addio a Lo Coco: «Ha cambiato la storia della leucemia fulminante»

Metà medico, metà ricercatore. «Francesco è stato una delle prime figure in grado di incarnare la doppia anima: era vicino al letto dei pazienti, ma sapeva pure che per aiutarli era necessario lavorare in laboratorio», sono le prime parole con cui Piergiuseppe Pelicci ricorda Francesco Lo Coco (ordinario di ematologia all'Università di Roma Tor Vergata), scomparso domenica pomeriggio. Insieme avevano portato avanti l'attività di ricerca sulla leucemia promieloicitica acuta, nei cui confronti l'approccio è radicalmente mutato grazie a una scoperta avvenuta partendo da un'intuizione di Lo Coco, che da oltre dieci anni era membro del comitato scientifico di Fondazione Umberto Veronesi. Lo scienziato, palermitano di nascita, ha scritto 234 articoli scientifici, citati quasi 40mila volte: con un «H-index» (parametro che valuta la prolificità e l'impatto del lavoro di un ricercatore) vicino a 100.

MEDICINA DI PRECISIONE: QUALI I PROSSIMI PASSI NELLA LOTTA AI TUMORI? 

LA SVOLTA NELLE LEUCEMIE FULMINANTI

Pelicci, nel ricordarlo, è ancora commosso. «La nostra conoscenza risale agli inizi degli anni '90 - prosegue l'attuale direttore della ricerca dell'Istituto Europeo di Oncologia -. Quando rientrai dagli Stati Uniti, lo contattai perché anche io studiavo già da qualche anno i meccanismi alla base della leucemia promielocitica acuta, che rappresenta l'unica urgenza in ambito oncologico». Il rapporto professionale, che si sarebbe poi evoluto in un'amicizia al di là dell'attività in laboratorio, diede subito i suoi frutti. Nel 1991, infatti, Lo Coco e Pelicci identificarono i geni RAR alfa e PML coinvolti nella traslocazione che innesca il processo oncologico. «L'identificazione della causa di questa malattia rappresentò il primo punto per arrivare a quanto poi accaduto agli inizi degli anni 2000». Chiaro il riferimento alla «rivoluzione» portata nella cura della leucemia promielocitica acuta, descritta in uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 2013: prima firma, proprio quella di Lo Coco. «Il gruppo degli ematologi italiani ha spedito in soffitta la chemioterapia per la cura di questo tumore - prosegue Pelicci -. Molto più efficace si rivela infatti l'approccio che prevede la somministrazione combinata dell’acido retinoico con il triossido di arsenico. Quest'ultimo induce la morte delle cellule tumorali, che sarebbe però insufficiente senza l’apporto del derivato della vitamina A, che induce la differenziazione cellulare dei promielociti in globuli bianchi maturi. E, soprattutto, sani».


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APRIPISTA NELL'ERA DELLA MEDICINA DI PRECISIONE

Questo approccio, mirato a colpire soltanto le cellule tumorali, ha rappresentato la prima svolta impressa dalla medicina di precisione. Un passaggio «epocale», secondo Pelicci, reso possibile dalla relativa scarsa complessità genetica alla base di questa leucemia. «Oggi viviamo una fase di transizione che, progressivamente, ci porterà a utilizzare sempre meno i farmaci aspecifici, come i chemioterapici, per lasciare spazio a molecole in grado di correggere i difetti alla base di ogni malattia oncologica». Il risultato raggiunto sulla leucemia promielocitica acuta - valso a Lo Coco numerosi premi, tra cui il «Josè Carreras» nel 2018, il più prestigioso riconoscimento europeo in ambito ematologico - ha fatto da apripista. E, ancora oggi, rimane unico nel suo genere. La sopravvivenza per questa malattia, prima spesso fatale, adesso raggiunge il 90 per cento (se identificata in tempo). Merito di una terapia più efficace e meno tossica: ecco qual è il vantaggio di poter rinunciare alla chemioterapia, che in molti casi rimane invece ancora il trattamento di prima linea contro i tumori.

L'IMPEGNO IN FONDAZIONE UMBERTO VERONESI

Fu proprio Pelicci, agli inizi degli anni 2000, a proporre a Umberto Veronesi l'ingresso di Lo Coco nel comitato scientifico della Fondazione. Un incarico che, ricorda lo scienziato, «Francesco aveva accettato con grande impegno e senso di responsabilità, conscio di quanto fosse delicato il ruolo di chi doveva scegliere se dare fiducia a un ricercatore piuttosto che a un altro». Al di fuori del laboratorio e del reparto, dov'era pienamente impegnato, «Francesco era un uomo sempre sorridente, di grande spessore culturale. Amava la musica (il suo unico figlio è un pianista, ndr) e il teatro, ma soprattutto le sue radici: era figlio di produttori di tonno, il suo legame con il mare era viscerale. Palermo e Castro-Urdiales, in Spagna, erano i rifugi per il tempo libero».


IL RICORDO DEGLI EMATOLOGI ITALIANI

A ricordare Lo Coco, in queste ore, è stata soprattutto la comunità degli ematologi. La sua scomparsa ha seguito di pochi mesi quella di Franco Mandelli: un padre professionale per il medico palermitano, che stava provando a prendere il suo posto all'Università La Sapienza di Roma (era sotto concorso per la cattedra di ematologia, vacante). «Le tue ricerche erano, sono e resteranno famose nel mondo perché il tuo nome è legato alla scoperta della prima cura per guarire una leucemia senza usare la chemioterapia - afferma Marco Vignetti, ematologo del policlinico Umberto I e presidente della Fondazione Gimema, impegnata nel sostegno alla ricerca sulle malattie ematologiche -. Questo risultato ha un valore simbolico ineguagliabile nella storia della lotta dell’uomo contro i tumori». Aggiunge Paolo Corradini, direttore del dipartimento di oncologia medica ed ematologia dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e presidente della Società Italiana di Ematologia. «Oltre alla serietà e alla preparazione, di Francesco rimane il ricordo della sua cultura, del suo garbo e della sua cortesia. Nella mia mente evocava la nobiltà siciliana dell'800: era un uomo colto e affabile nei modi». Conclude il genetista Giuseppe Novelli, rettore a Tor Vergata: «Aveva raggiunto grandi risultati, sempre condivisi con la sua squadra e con i suoi maestri. Era una persona misurata, giusta e generosa».

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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