Spesso temute e rifiutate perché associate solo alla fine della vita, le cure palliative migliorano la qualità delle cure. Necessario potenziare il dialogo tra il medico e il paziente
Non servono a rallentare la progressione di un tumore, ma in un paziente oncologico le cure palliative hanno la loro utilità: alleviano i sintomi fisici e attenuano il disagio psicologico che quasi sempre accompagna la malattia. La loro percezione è però ancora troppo spesso distorta. Nei pazienti e nei loro familiari è infatti diffusa l’opinione che si tratti di un intervento inutile, messo in atto nel momento in cui le speranze di vita di un paziente sono ridotte al lumicino. Tocca dunque ai medici «riabilitarle», presentandole come un valido supporto nel percorso di terapia e assistenza.
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UNO STIGMA DA ABBATTERE
A «sminuire» l’utilità delle cure palliative sono le conclusioni di uno studio condotto da un gruppo di oncologi del Princess Margaret Cancer Center di Toronto e pubblicato sul Canadian Medical Association Journal. Per quanto realizzata su un campione ristretto di persone (71), la ricerca ha confermato come le cure palliative siano circondate da uno stigma difficile da eliminare. I ricercatori hanno arruolato 48 pazienti (con prospettive di vita stimate tra i sei e i ventiquattro mesi) e 23 operatori sanitari che avevano partecipato a un precedente studio più ampio (con 461 ammalati). La metà dei pazienti - affetti dai tumori più diffusi: al seno, al polmone, all’apparato genitourinario (maschile e femminile) e gastrointestinale - sono stati sottoposti alle sole cure oncologiche, mentre all’altro gruppo sono stati somministrati anche trattamenti palliativi (in abbinamento alle terapie standard). Al termine dei due percorsi a tutti è stato chiesto di compilare un questionario dettagliato, messo a punto al fine di valutare quale fosse la considerazione delle cure palliative.
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TERAPIE DA RINOMINARE?
Dall’analisi dei test, è emerso che inizialmente tutti avevano un’errata percezione delle cure palliative: spesso temute ed evitate perché associate oltre il dovuto agli ultimi giorni di vita. In realtà, però, tra i pazienti inseriti nel gruppo di trattamento, in molti hanno segnalato un cambiamento nelle proprie convinzioni. A guidarlo il miglioramento nella qualità della vita registrato durante le terapie. Eppure, nonostante l’esperienza positiva, «molti pazienti hanno chiesto di trovare un'altra etichetta con cui rinominare le cure palliative», afferma Camilla Zimmermann, a capo del dipartimento di cure palliative del Princess Margaret Cancer Center di Toronto. «Chiamarle diversamente potrebbe contribuire a ridurre lo stigma nei loro confronti, ma è importante anche che il personale sanitario riesca a spiegarne la reale utilità». Su questo punto si è in forte ritardo, se si considera che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito nel 2002 le cure palliative come qualcosa di «precocemente attuabile nel corso della malattia, anche in combinazione con altre terapie, al fine di prolungare la vita di un paziente».
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Si tratta dell’insieme dei trattamenti in grado di migliorare la salute fisica (gestione del dolore, nausea, mancanza del respiro, sonno) e mentale (ansia e depressione) dei pazienti e dei loro parenti. Un compito importante, su cui è crescente l’attenzione da parte degli oncologi, sebbene - ricerche alla mano - nei Paesi latini continui a esserci una maggiore propensione da parte dei pazienti a richiedere la chemioterapia anche nelle ultime settimane di vita. Il dibattito è però vivo, anche in occasione degli appuntamenti scientifici. Ed è a margine del convegno nazionale del Collegio Italiano dei Primari Oncologi Ospedalieri (Cipomo) che Saverio Cinieri, direttore della divisione di oncologia medica dell’ospedale Perrino di Brindisi, è tornato sull’argomento. «Bisogna educare tutti fin dall’inizio, spiegando che le terapie oncologiche contribuiscono ad allungare la vita e che le cure palliative ne migliorano la qualità. Questo aspetto è sempre più importante, oggi che le diagnosi di tumore sono in aumento e che la prospettiva è quella di cronicizzare la malattia».
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MIGLIORARE LA COMUNICAZIONE CON IL PAZIENTE
In un Paese in cui è ancora difficile parlare di dolore, il primo passo da compiere spetta agli specialisti. «Ognuno di noi, quando ha di fronte un paziente oncologico o un suo parente, deve sforzarsi di essere dall’altra parte. Spiegare loro che iniziare quanto prima le cure palliative permetterà di gestire meglio i sintomi è un conforto con cui si può superare lo stigma che porta a considerare questi farmaci come l’ultima spiaggia». Anche perché parlarne quando la situazione sta per precipitare è più difficile. L’utilizzo delle cure palliative andrebbe inoltre «incentivato perché meno costoso e dannoso rispetto a una chemioterapia portata avanti in un paziente terminale - chiosa Cinieri -. Sappiamo che, nella maggior parte di questi casi, non si osserva alcun miglioramento delle prospettive di vita». Anzi: la tossicità dei farmaci, in un paziente già debilitato, può anche avvicinare la fine.
Fabio Di Todaro
Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).