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Neuroscienze
Serena Zoli
pubblicato il 04-08-2023

Quando il lutto diventa "patologico"



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Dopo lungo dibattito, è tracciato il confine oltre il quale il cordoglio diventa una patologia. Tutt'altro che rara: tocca una persona in lutto su tre

Quando il lutto diventa "patologico"

Il lutto è il dolore che si prova per la morte di una persona cara. Si parla, col linguaggio della psicoanalisi, di elaborazione del lutto come processo interiore in cui si finisce per accettare la perdita e si riprende il proprio posto nel mondo ormai privo di quella presenza amata. Ma ci sono casi in cui questa maturazione psichica non si verifica e il lutto non viene “superato”. Entrando nel territorio della psichiatria si incontra, nella 5° edizione del Dsm da poco revisionato, un disturbo specifico relativo a questa situazione: il disturbo di lutto persistente e complicato.

 

COME SI RICONOSCE UN LUTTO PATOLOGICO?

Il Dsm è il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ovvero la cosiddetta “bibbia della psichiatria” mondiale. I sintomi descritti per questa “nuova” patologia, il disturbo di lutto persistente e complicato, si possono riassumere in vissuti di angoscia, colpa, invidia, rabbia, incredulità per un periodo di tempo superiore ai 12 mesi. Tutti sentimenti in grado di interferire con i normali comportamenti della persona.

 

CAPITA AD UNA PERSONA IN LUTTO SU TRE

Uno studio pubblicato sul Journal of Affective Disorders sostiene che un terzo delle persone che hanno subito la morte di un loro caro rientrano nei casi di lutto patologico sopra descritto. L’indagine è stata compiuta su 1.137 adulti e la percentuale individuata è del 34,3 per cento, con il 37,6 per cento che indica la tristezza persistente come un’interferenza nel loro modo di agire. Con tutto ciò, quasi tutti gli intervistati – il 98,1 per cento – dichiaravano di trovare del tutto normale e comprensibile il loro vissuto di fronte a un evento grave come quella perdita.

 

LE SITUAZIONI DIFFICILI DA SUPERARE

I ricercatori hanno voluto registrare le percentuali di lutto patologico riguardo alla relazione intrattenuta con la persona morta e rispetto alla causa del decesso. Il più alto livello, 41,6 per cento è risultato per la perdita di un figlio, seguito dalla scomparsa del coniuge o compagno di vita, 33,7 per cento, infine con il 29,4 per la morte di un fratello. Quanto alla causa di morte, quella che più ha ferito i rimasti è la fine per overdose con un 59,1 per cento, seguito dall’omicidio o suicidio, al 46 per cento, per motivi accidentali il 36 per cento. Quanto poi al senso, all’utilità, di venire diagnosticati come portatori di un lutto “esagerato” solo il 12 per cento hanno ritenuto che questo potesse aiutarli, mentre la gran parte degli altri l’hanno giudicato di nessun aiuto.

 

DA DISTINGUERE DALLA DEPRESSIONE

Il professor Massimo Biondi, ordinario di Psichiatria, direttore del Dipartimento di Scienze psichiatriche e Medicina psicologica dell’Università La Sapienza di Roma, ricorda il lungo dibattito che ha preceduto l’inserimento del lutto prolungato e complicato nel Dsm. Si diceva che forse era da catalogare entro la depressione maggiore, una prima proposta di tempo indicava come limite di normalità 3 mesi, si argomentava sulla differenza del cordoglio per la scomparsa di un bambino o di una nonna novantenne.

«La versione che è divenuta ufficiale – commenta – pone il limite a un anno. C’è differenza con la depressione maggiore nel senso che, certo, la persona è depressa, ma il suo dolore è tutto centrato intorno alla persona scomparsa. Si vive una intensa nostalgia, senso di incredulità, rabbia, il volere evitare a tutti i costi sia i ricordi sia i luoghi dove si è stati con il defunto. In particolare c’è il sentimento che è morta una parte di sé. Infine il dolore può creare difficoltà nella relazione con gli altri, nel pianificare il proprio futuro. Tutto questo non c’è nella depressione. E quanti vivono questo lutto rifiutano di venir definiti depressi: noi siamo sofferenti, obiettano, per un motivo ben preciso!».

 

L'IMPATTO SULLA SALUTE

Il professor Biondi accenna alle cure, d’ordine psicoterapiche e farmacologiche, con speciale attenzione a proteggere il sonno oltre che ad attenuare l’angoscia. «Aggiungerei il coinvolgimento del corpo, con un’alimentazione sana, passeggiate, l’esporsi al sole. Negli ultimissimi anni è venuto fuori che ci sono cibi “cerebrali”, per esempio il pesce pare proteggere dalla depressione». Sul piano dell’organismo concreto, lo psichiatra sottolinea che col lutto si può vivere una vera “tempesta fisica”, si diventa più fragili dinanzi alle malattie, in particolare rischi cardiovascolari e scompensi endocrini. «Si abbassano le difese immunitarie. E nel caso del lutto è una realtà riconosciuta che si può morire di crepacuore. Si muore a coronarie integre, pulite». Il crepacuore esiste e viene anche chiamato con il termine tako-tsubo, perché questa sindrome fu descritta per la prima volta in Giappone nel 1991.

 

L'IMPORTANZA DI UN RICONOSCIMENTO FORMALE

L’ultima osservazione del professor Massimo Biondi è d’ordine pratico: «L’esistenza di una diagnosi accertata significa che può venire riconosciuta dai servizi sanitari e dalle assicurazioni per fornire l’assistenza. E per esempio dei genitori che hanno perso un bambino per leucemia possono vedersi riconosciute delle giornate di assenza dal lavoro. Perciò, alla fine, in termini concreti, questa diagnosi di lutto prolungato e complicato è un valore». 

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Serena Zoli
Serena Zoli

Giornalista professionista, per 30 anni al Corriere della Sera, autrice del libro “E liberaci dal male oscuro - Che cos’è la depressione e come se ne esce”.


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