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L'Italia ha bisogno di credere (ancora) nella ricerca scientifica

Esce il 15 febbraio «Scoperta - Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l'Italia»

L'Italia ha bisogno di credere (ancora) nella ricerca scientifica

Domani, giovedì 15 febbraio, uscirà in tutte le librerie «Scoperta - Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l'Italia», il nuovo saggio scritto da Roberto Defez per Codice Edizioni, come seguito di una TED Conference del Cnr tenuta a Roma.

Con questo post anticipiamo la premessa del libro, che si prefigge (anche) l'obiettivo di sensibilizzare la classe politica, affinché torni a considerare gli investimenti nella ricerca un'opportunità di crescita per tutto il Paese.

In Italia non sono mai nati così pochi bambini come nel 2016: appena 474mila, non accadeva da cinque secoli, quando però eravamo poco più di dieci milioni. Cosa succede? Tante cose. Tra le altre, anche che i giovani più intraprendenti, colti, liberi, coscienti del proprio merito e valore fuggono all’estero. Non solo perché non c’è lavoro, o perché gli stipendi sono un insulto o perché hanno un’elevata professionalità che non viene recepita e valutata in patria. Nell’ottobre 2017 la fondazione Migrantes ha valutato che sono 124mila gli italiani emigrati nel 2016 (+15,4 per cento rispetto all’anno precedente) e cinquantamila circa nella sola fascia di età diciotto-trentaquattro anni (+23,3 per cento rispetto al 2015). Oggi gli italiani residenti all’estero sono cinque milioni, tanti quanti gli immigrati in Italia.

Scappano anche perché la nostra è una società che trucca le carte, che trucca i bandi, che non isola o punisce chi mente o froda, e che tutela solo chi fa parte di un clan o una corporazione. Il merito non conta, contano le conoscenze, la conservazione dei privilegi e il posto fisso, anche se chi lo ha non lavora, conta la cultura locale, antica, nostalgica, accartocciata su se stessa, che diffida delle idee nuove e teme di competere. Questa è una cultura che forma giovani già sconfitti, giovani che non sanno superare le vecchie generazioni, che fanno delle persone mature degli idoli o dei fastidi inutili, che non sanno guidare il Paese verso nuovi modi di fare lavoro, impresa e cultura, e di accedere a nuove conoscenze e nuove visioni del mondo e del futuro.

Un’ennesima competizione elettorale è alle porte e paralizzerà ancora a lungo il Paese. Uno dei gruppi che compete ha adottato come simbolo il trolley. Il trolley, l’oggetto trolley, l’innovazione del trasporto del bagaglio è un’idea geniale e rivoluzionaria. Ha facilitato la vita a tantissimi, ha ridotto le differenze tra uomini e donne, e tra anziani e giovani. Ma ha anche eliminato la vecchia e misera categoria professionale dei facchini, coloro che trasportavano i pesanti bagagli senza rotelle lungo le pensiline delle stazioni ferroviarie. Queste sono le vere domande con cui ci confrontiamo oggi: innovazione o nostalgia, tutela dei lavori esistenti o libertà ed esigenza di sviluppare maggiori professionalità. Cultura, conoscenza, ricerca, competizione, valutazione e selezione o chiusura a difesa dell’esistente fino a che sarà possibile? Aziende storiche e posti di lavoro ottocenteschi o aziende nuove per nuove esigenze e lavori nuovi a elevata specializzazione e professionalità? La libreria del quartiere o Amazon: o meglio ancora, come fare in modo che le librerie esistenti possano competere, o collaborare, con Amazon nel recapitare i volumi in maniera efficiente?

Insomma, si devono tutelare i lavori più umili, come il facchino, o puntare a una società più da trolley? Dobbiamo continuare ad avere il tergicristallo sulle nostre automobili o accettiamo di montarlo due volte l’anno per il viaggio estivo della famiglia e il resto del tempo facciamo affidamento e garantiamo occupazione ai lavavetri ai semafori? Per piantare un nuovo vigneto usiamo i trattori guidati dai Gps o vogliamo recuperare il gesto antico di spargere i semi nei solchi creati dall’aratro trainato da buoi, sperando che i passeri non se li mangino tutti? Certo, vorremmo avere entrambi, tradizioni e innovazioni, ma di finte tradizioni veniamo sommersi in ogni campagna pubblicitaria, mentre le innovazioni aspettiamo che ce le servano a tavola già pronte e fatte da altri. Finché saremo in grado di permettercele. Finché non toccherà (nuovamente) a noi emigrare, come i popoli dell’Est, per andare nei Paesi oggi emergenti a fare le badanti e i netturbini.

Il World Economic Forum ha appena pubblicato il rapporto sulla competitività 2017-2018 di 137 nazioni. L’Italia non ne esce bene, arrivando al quarantatreesimo posto nonostante una buona scuola primaria, una buona sanità e una moderata capacità d’innovazione. Ma è indispensabile reagire, se su 137 Paesi ci classifichiamo per: efficienza nel risolvere le dispute legali (134), trasparenza nei procedimenti governativi (128), tassazione (126), effetto della tassazione sugli investimenti (135), prevalenza della proprietà estera (111), efficienza della spesa governativa (126), costi relativi (134), protezione degli interessi di minoranze (117), flessibilità nel salario (131), pratiche di assunzione e licenziamento (127), effetto delle tasse sull’incentivo al lavoro (127), capacità del paese di trattenere talenti (106), capacità del Paese di attrarre talenti (104). Più in generale, sull’intero capitolo dello sviluppo del mercato finanziario (composto da otto diverse voci), siamo 126/137 Paesi. Andiamo decisamente meglio nel capitolo innovazione dove siamo 34/137. Ma a peggiorare la media di questa classifica è l’interesse istituzionale all’uso di prodotti di elevata tecnologia (95): come dire che chi ci governa non sfrutta o usa le innovazioni prodotte. Se paragoniamo la nostra valutazione a quella di Israele (che si classifica globalmente al 16imo posto), Israele per quattro diversi parametri si classifica al terzo posto su 137 Paesi: capacità d’innovazione; qualità delle istituzioni scientifiche; aziende che investono in ricerca e sviluppo; collaborazione tra Università ed imprese in ricerca e sviluppo. Per il capitolo innovazione, dove siamo trentaquattresimi, Israele è terza al mondo: forse almeno nel campo dell’innovazione e ricerca potremmo farci aiutare e studiare come migliorare. Soprattutto potremmo smettere di dire che è tutta colpa della politica, della magistratura, dei giornalisti o del destino cinico e baro. Secondo questo rapporto i problemi dell’Italia non sono nemmeno la corruzione o la criminalità organizzata (temi che invece invadono il dibattito pubblico). Potremmo decidere di partire dalle nostre colpe, ritardi, dal lavoro malfatto o dai favoritismi, indulgenze, superficialità cui assistiamo ogni giorno e aggregare iniziative propositive e visionarie, condivise tra coloro che meglio conoscono le problematiche. Per esempio partendo dalle colpe e responsabilità degli scienziati.

 

Questo testo parla di ricerca e bufale scientifiche, di dilettantismi e delle nostre credenze, di finanziamenti, degli inganni della politica o delle amministrazioni, per arrivare a formulare una proposta un po’ folle e un po’ assurda, certamente fuori dagli schemi, per aprire una nuova via e immaginare un paese che si ricongiunga ai numerosi suoi figli che ha espulso ed esiliato. In realtà, se si fosse limitato a trattare il tema della ricerca scientifica e fosse rivolto solo alla comunità degli scienziati, questo testo avrebbe fallito, perché vorrebbe illustrare una via per migliorare il paese in tutti i suoi ambiti e le discipline. Per cambiare la modalità con cui vengono fatte le scelte, il modo in cui si organizzano i dati per poi poter decidere quali sono le priorità del paese, quali sono gli investimenti produttivi e quali i contributi di solidarietà, quali i costi insostenibili e quali quelli strategici. Vorrebbe proporre la modalità di procedere tipica di una specifica categoria, che può essere imitata da tantissime altre, e contribuire così a tirare fuori l’Italia dai clan, dalle beghe, dagli egoismi che ci condannano e che condannano i nostri figli a fuggire. Vuole usare una strana classe di cittadini come esempio, sostegno e stimolo, affinché tutto il paese decida di cambiare modo di approcciare i problemi.

Gli scienziati non sono migliori del resto dei cittadini e questo testo è un lungo e impietoso elenco di critiche mosse dall’interno proprio agli scienziati. Ma la comunità scientifica è uno strano agglomerato di individualità, innamorato del lavoro che fa e selezionato ferocemente come poche categorie in Italia. È formato da persone che hanno l’abitudine di guardare al mondo intero e non al quartiere o al condominio in cui abitano. Possono essere uno strumento per osservare la realtà in maniera impietosa e farne una valutazione che prescinda da amicizie, parentele o dialetti. Questa vorrebbe essere un’analisi che aiuti a leggere ciò già si vede al di là dei lustrini della pubblicità e degli illusionismi. Prima che sia davvero troppo tardi.



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