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Pediatria
Daniele Banfi
pubblicato il 14-01-2014

Curare la mamma per limitare i danni nella sindrome di Down



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Alcune recenti ricerche dimostrano che è possibile attenuare sensibilmente i danni della trisomia 21 con farmaci adeguati alle madri in attesa

Curare la mamma per limitare i danni nella sindrome di Down

Il 2013 da poco trascorso verrà ricordato anche per i grandi passi avanti della ricerca nella cura della sindrome di Down.

Pur non arrivando ad una cura definitiva, difficile per via dell'anomalia genetica presente in tutte le cellule, gli studi presentati nel corso del 2013 hanno dimostrato che è possibile prevenire sensibilmente i danni neurologici causati dalla sindrome di Down. Come è presto detto: prendendosi cura delle madri in attesa utilizzando un mix di antiossidanti e una molecola utile da tempo per le sue proprietà antidepressive.

LA MALATTIA- La sindrome di Down, nota anche con il nome di trisomia 21, è una malattia genetica causata dalla presenza di un cromosoma in più rispetto al normale. Il suo scopritore fu Jerome Lejeune, genetista francese che nel 1959 dimostrò per la prima volta lo stretto legame tra malattia e difetto genetico. Secondo Lejeune, «i geni sono simili a musicisti che leggono i loro spartiti». Se tutto va bene, tutti leggono alla stessa velocità e la sinfonia è perfetta. «Ma se c’è un musicista in più - prosegue -, come nel caso della trisomia 21, è come se quel musicista andasse troppo veloce. Non stravolge la musica, ma ne cambia il ritmo producendo una cacofonia». Ed è quello che, secondo Lejeune, succede nella sindrome di Down, dove le manifestazioni fisiche della malattia, soprattutto a livello neurologico, non sono altro che un eccesso di «musicisti che suonano la stessa musica a ritmi differenti».

STRESS OSSIDATIVO- Oggi, grazie alle sempre più moderne tecniche di indagine molecolare, è possibile identificare e quantificare l'attività di quei geni “di troppo”. Da tempo la professoressa Diana Bianchi, direttrice del «Mother Infant Research Institute» della Tufts University School of Medicine di Medford, si occupa proprio di questo: «Grazie all’analisi del trascrittoma del fluido amniotico siamo in grado di rilevare i cambiamenti molecolari nel feto a differenti stadi di sviluppo. Questo ci da modo di verificare i cambiamenti che intercorrono tra i bambini sani e quelli affetti da trisomia 21 e ci fornisce la straordinaria possibilità di individuare possibili bersagli terapeutici» spiega la professoressa. Nel corso degli anni la scienziata ha rilevato che nei feti con la sindrome di Down vi è un eccessivo stress ossidativo, ovvero una iper-produzione di molecole tossiche capaci di danneggiare le strutture cellulari.

DIETA- Ecco perché contrastarne la formazione potrebbe essere una buona strategia per limitare i danni. L’idea è dunque quella di tamponare l’effetto tossico dello stress ossidativo. «A tale scopo stiamo testando in laboratorio gli effetti di alcune molecole antiossidanti sia su amniociti - le cellule fetali presenti nel liquido amniotico - sia in topi da esperimento affetti da una patologia comparabile alla sindrome di Down. Al momento i primi dati preliminari ci indicano che i topi le cui madri sono state trattate con alte dosi di antiossidanti presentano un quadro cognitivo comportamentale migliore rispetto a quelli delle madri non trattate» conclude la Bianchi. Un risultato che, se confermato, aprirebbe scenari davvero interessanti.

ANTIDEPRESSIVI- Scenari che potrebbero essere addirittura migliori grazie ad una seconda ricerca, targata Italia, ad opera della professoressa Renata Bartesaghi del Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie dell’Università di Bologna. Al suo gruppo va il merito di aver scoperto che un comune antidepressivo (fluoxetina) può essere utile nel ridurre i danni strutturali a livello cerebrale. La strategia è la stessa della dottoressa Bianchi. Come spiega la professoressa, «dai nostri studi è emerso che il trattamento prenatale con fluoxetina nelle mamme ripristina il cervello in tutte le sue parti. Il tutto senza effetti collaterali negativi: per il figlio non sono stati rilevati danni apparenti del corpo, né un aumento della mortalità; nella madre non si sono verificati problemi in gravidanza, né un aumento di aborti o una diminuzione del numero di cuccioli. Quello che possiamo dire è che il farmaco aumenta la presenza di serotonina nel cervello, sostanza critica per la nascita e il corretto sviluppo dei neuroni». Un altro risultato straordinario che ora dovrà essere necessariamente confermato anche nell'uomo.

Daniele Banfi
Daniele Banfi

Giornalista professionista è redattore del sito della Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.


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