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É giusto usare i dati ottenuti da una ricerca non-etica?

La storia terribile dell'unità segreta 731, un dilemma etico fra integrità morale e conoscenza

É giusto usare i dati ottenuti da una ricerca non-etica?

É giusto usare i dati ottenuti da una ricerca non-etica?

Nelle scorse settimane si è acceso un interessante dibattito che riguarda l’utilizzo di alcune parole – dette “eponimi” – che vengono create a partire da nomi propri di persone per indicare e celebrare una qualche scoperta o innovazione. In alcuni casi, però, questi eponimi sono legati a nomi storicamente ingombranti, tra cui quelli di alcuni criminali di guerra nazisti.

Il problema è dunque se sia lecito “onorare” alcune persone con un eponimo, anche quando si hanno le prove che queste persone si sono macchiate di crimini orrendi. Di questo problema ne hanno parlato Roberto Cubelli e Sergio Della Sala in un articolo pubblicato su The Future of Science and Ethics e, più recentemente, anche i grandi quotidiani, commentando la pubblicazione di una ricerca che ha dimostrato il coinvolgimento diretto di Hans Asperger nel Terzo Reich (noi ne abbiamo parlato sia qui, sia in questo articolo apparso sul Corriere online).

La questione degli “eponimi da bandire” tocca però da vicino un’altra questione interessante e in parte a essa sovrapposta: e cioè se sia lecito utilizzare i dati ottenuti attraverso ricerche sperimentali che hanno mancato o esplicitamente violato alcuni presupposti etici di base.

A questo proposito un caso emblematico, e poco conosciuto, è accaduto sempre durante la Seconda Guerra Mondiale, in Cina. Qui l’esercito di occupazione giapponese intraprese sperimentazioni orribili, equiparabili per atrocità a quelle commesse dai medici nazisti in Europa e spaventose nei numeri. In particolare, l’unità segreta 731, sotto la guida del generale Shiro Ishii (nella foto, Public Domain, Link), condusse atroci sperimentazioni su prigionieri di guerra con lo scopo di sviluppare armi batteriologiche e biologiche da poter utilizzare nel conflitto. Si stima che le truppe giapponesi uccisero centinaia di migliaia di persone con i germi coltivati nei laboratori supervisionati da Ishii.

A differenza dei medici nazisti processati a Norimberga, però, quasi nessuno tra le decine di responsabili di queste sperimentazioni pagò alla fine il proprio conto con la giustizia – nemmeno Ishii. La spiegazione è piuttosto semplice: prevedendo giustamente che dopo la guerra non si sarebbero più potute condurre sperimentazioni con cavie umane di tali dimensioni, gli Stati Uniti decisero di scambiare i dati in possesso dell’unità 731 con l’immunità dei suoi componenti. Dopo la fine del conflitto, molti di coloro che avevano preso parte alle sperimentazioni umane tornarono così alla propria vita civile, a volte finendo per lavorare in università o per aziende farmaceutiche.

Il caso dell’immunità concessa a Ishii, e a quasi tutti gli altri componenti dell’unità 73, solleva alcune domande etiche interessanti: se avessimo accesso a dei dati che ci consentissero di progredire nelle nostre conoscenze scientifiche, o addirittura di sviluppare nuove cure che potrebbero salvare altre vite umane, ma sapessimo che tali dati sono stati raccolti in spregio alle più elementari norme di salvaguardia etica, sarebbe comunque giusto utilizzare tali dati? O dovremmo invece ignorarli, rinunciando così ai possibili benefici che ne potrebbero derivare?

Rispondere a queste domande è complesso, in parte perché si tratta di scegliere tra due prospettive morali tra loro apparentemente incompatibili: o si pensa che, siccome i dati sono già disponibili, allora tanto vale farvi ricorso (seppur mantenendosi in radicale disaccordo con il metodo secondo cui sono stati ottenuti); oppure si pensa che in ogni caso sia sbagliato utilizzare dei dati, per quanto utili, che sono stati ottenuti violando la dignità fondamentale di altre persone.

Secondo Cubelli e della Sala, ad esempio, “i dati raccolti senza rispetto dei principi etici non devono essere usati”. Personalmente, io non sono così convinto di questa conclusione: mi sembra infatti possibile fare del bene utilizzando dei dati che sono già oggi disponibili, rimanendo però egualmente inorriditi dai metodi che sono stati utilizzati per ottenerli e assolutamente contrari a un loro nuovo utilizzo, a prescindere da quali benefici possono essere prospettati.

A prescindere da quello che ciascuno può pensare a questo riguardo, però, una cosa è certa: a volte, nella scienza come nella vita, si può scegliere di rimanere ignoranti anche e solo per ragioni di etica e integrità morale.



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