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Francesca Borsetti
pubblicato il 29-05-2023

Tumore al seno: così combattiamo la resistenza alle terapie



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Comprendere lo sviluppo delle resistenze ai farmaci che bloccano la divisione cellulare potrebbe migliorare le strategie per il trattamento dei tumori: la ricerca di Paolo Bonaiuti

Tumore al seno: così combattiamo la resistenza alle terapie

Le cellule sane si trasformano in tumorali a causa di danni al DNA. In condizioni normali, le cellule che non riescono a riparare queste alterazioni vanno incontro a una morte programmata. Le cellule tumorali, tuttavia, non muoiono e continuano a proliferare, generando così ulteriori cellule anomale. Per contrastare la crescita tumorale nel tumore al seno è possibile usare farmaci antimitotici: si tratta di molecole che inibiscono la mitosi, cioè la fase di divisione cellulare del ciclo cellulare. La maggior parte delle cellule trattate con antimitotici entra in uno stato di senescenza, che può portare alla morte cellulare. Esiste però una piccola frazione di cellule in grado di “evadere” da questo stato che riprende a dividersi.

Paolo Bonaiuti è ricercatore presso l’Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare ETS (IFOM) di Milano, dove studia il ruolo della proteina Triap1 sull’efficacia dei trattamenti con antimitotici. Il suo progetto sarà sostenuto per il 2023 da una borsa di ricerca di Fondazione Umberto Veronesi nell’ambito del progetto Pink is Good.

 

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Paolo, come nasce l'idea del vostro lavoro?

«Nasce da osservazioni fatte in un progetto precedente, che ha aperto nuove domande rimaste inesplorate. In quello studio abbiamo trattato delle cellule di tumore al seno con farmaci chemioterapici antimitotici, e abbiamo notato che questi perdono efficacia quando le cellule “alterano” una proteina chiamata Triap1. Abbiamo studiato e descritto questa resistenza in un articolo scientifico, ma alcune domande, anche cruciali, sono rimaste aperte».

In particolare?

«Gli antimitotici sono una classe di farmaci molto usata per trattare i tumori solidi, spesso in combinazione con altre molecole. La risposta è tipicamente buona, ma lo sviluppo di recidive non è del tutto scongiurato. Una delle possibili cause di recidive è lo sviluppo di resistenza ai farmaci da parte delle cellule tumorali sopravvissute al primo trattamento. Comprendere lo sviluppo di resistenze è un modo per migliorare il trattamento e la cura dei tumori».

Quali sono le domande rimaste aperte?

«L’osservazione che una popolazione di cellule possa sopravvivere al trattamento con antimitotici è una novità, seppure circoscritta. Ci siamo chiesti quale sia l’origine dell’alterazione che conferisce resistenza. Le opzioni sono due: è l’alterazione a essere presente prima del trattamento, in poche cellule tumorali che saranno poi le uniche superstiti al farmaco, oppure l’alterazione è una conseguenza del trattamento stesso? Inoltre, da studi di altri gruppi di ricerca, sappiamo che questa alterazione conferisce resistenza anche a una classe di farmaci chemioterapici diversa dagli antimitotici. A quante altre classi di farmaci l’alterazione di Triap1 conferisce resistenza?»

Insomma, Triap1 sembra essere al centro di molti eventi di farmacoresistenza...

«L’origine dell’alterazione pone domande clinicamente rilevanti. Se l’alterazione fosse pre-esistente al trattamento e selezionata (cioè solo le cellule tumorali che l’hanno riescono a sopravvivere e sviluppano resistenza), sarebbe importante cercarla nelle biopsie per predire l’insorgenza di recidive. Se invece fosse causata dal trattamento stesso, sarebbe importante affiancare al farmaco antimitotico uno che colpisca espressamente le cellule che manifestano questa alterazione. Simili riflessioni sorgeranno studiando la resistenza a diversi chemioterapici da parte di cellule con Triap1 alterata: nel caso l’alterazione di Triap1 conferisse resistenza a una certa classe di farmaci, la sua caratterizzazione sarebbe importante per decidere quale trattamento applicare a un paziente».

Sei mai stato all’estero per un’esperienza di ricerca?

«Sì, sono stato ospite del laboratorio di Michael Knop, allo ZMBH di Heidelberg in Germania. Ho passato lì un totale di sei mesi, in una decina di visite diverse».

Qual è stato il motivo delle visite?

«Per il progetto dottorato avevo bisogno di misurare in termini assoluti la quantità di alcune proteine nelle cellule che studiavo. Le quantità assolute sono merce rara in biologia: nella maggior parte dei casi le tecniche di analisi restituiscono aumenti o riduzioni relative a una condizione di riferimento. Una delle poche tecniche che poteva rispondere alla nostra domanda era una metodica di microscopia molto avanzata, chiamata FCCS, che usa laser pulsati e cronometri precisi al picosecondo, ma che non era presente né in IFOM né, per quanto ne sapessimo, in Italia. In Germania ho imparato a utilizzarla».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

«È stata un’esperienza davvero formativa. Al primo viaggio ad Heidelberg ero ai primi mesi del dottorato e - arrivando dagli studi in matematica - avevo poca dimestichezza con i laboratori. Avevo imparato ciò che sapevo dalla mia mentore e collega Elena Chiroli, che all’epoca ancora mi seguiva passo per passo. A Heidelberg invece, pur ricevendo supporto dai miei ospiti, ero l’unico responsabile dei miei esperimenti. In quell’ occasione ho preso consapevolezza di ogni passaggio e dettaglio dei miei esperimenti».

Ti è mancata l’Italia?

«L’esperienza in Germania è stata molto frammentata: andavo, provavo, tornavo a Milano, aggiustavo il tiro, andavo di nuovo. Per questo continuo spostarmi non ho avuto nostalgia dell’Italia, anche grazie al fortuito incontro con l’ottimo inquilino bolognese, armato di una grande scorta di ragù e di grande cuore».

Perché hai scelto di intraprendere la strada della ricerca?

«Tuttora non credo di avere preso la decisione definitiva di quale sia la mia strada. È per me chiaro il desiderio di avere un lavoro che abbia senso e che sia divertente, se possibile. Queste sono le caratteristiche della ricerca che sto facendo. La ricerca non è arrivata con un momento di epifania o una decisione del tutto consapevole: è stata la conseguenza di una serie di piccole scelte, un colloquio rifiutato e uno accettato, una fiducia trovata, un passo dopo l’altro».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Imparare continuamente cose nuove, pezzi di conoscenza umana di cui non avevo idea e con cui devo familiarizzare, cercando un compromesso tra il fare bene e il fare presto, sempre perfettibile e sempre concreto».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Fuori dal mio gruppo di ricerca sento spesso narrazioni tossiche, basate su un impegno cieco e una dedizione totale che mette il resto della vita fuori dall’inquadratura. È un atteggiamento che consuma il ricercatore nella frustrazione del “pubblica-o-muori” e ne sputa via i resti dopo anni di lavoro se i risultati non arrivano. Credo non faccia bene a nessuno».

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«La ricerca è la parte espansiva della scienza, la frontiera che si muove, l’orizzonte che si allarga, ma la ricerca non conclude la scienza. Dietro all’espansione è importante che ci sia un movimento di consolidamento, per esempio nelle scuole e attraverso i media, oppure negli ospedali e nelle industrie, che dovrebbero accogliere le scoperte e valorizzarle. Inoltre la scienza dovrebbe includere anche l’ascolto di quella società a cui è rivolta e da cui spesso arrivano i fondi con cui è finanziata».

In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?

«Una cosa che mi lascia sempre sbalordito è il fatto che la carriera lavorativa di chi fa ricerca sia così diversa da quella di altri ambiti. La carriera tipica prevede cambi di gruppo, di istituto, di Stato, dal dottorato in poi. Questo a prescindere dal valore e dalle competenze che il ricercatore porta al gruppo di ricerca in cui si trova. Restare nello stesso gruppo è visto con sospetto. Quando questa persona esce dal gruppo va sostituita con un’altra che deve raggiungere quelle stesse competenze, per poi andarsene e ricominciare. Fatico a credere che questo sia il sistema migliore per usare soldi, energie e competenze».

Cosa fai nel tempo libero?

«Da sempre faccio attivismo o volontariato, ora con un collettivo di quartiere con cui cerchiamo di alleviare un piccolissimo pezzo delle disuguaglianze presenti a Milano. Inoltre suono il violino da quando sono piccolo, con alti e bassi di dedizione, ma con grande piacere. Da tre anni frequento un corso di trapezio in una scuola di circo ed è bellissimo».

Hai famiglia?

«Ho una moglie e una figlia di sette anni».

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Le donazioni alla ricerca sono fondamentali perché la ricerca non si fermi. Attraverso le donazioni, un pezzo dopo l’altro, è possibile costruire le fondamenta per il sapere di domani. Oggi sono visibili sviluppi in ambito oncologico che hanno portato un miglioramento della vita e delle cure impensabili vent’anni fa. Non è il momento di fermarsi. Le donazioni sono importanti, così come gli sforzi di coloro che le rendono possibili, presenziando ai banchetti, distribuendo volantini, parlando nelle aziende, facendo pressione nelle istituzioni perché la ricerca non sia lasciata indietro. A tutte queste persone va il nostro riconoscimento e la nostra responsabilità per l’uso delle risorse che ci vengono consegnate».

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