Chiudi
I nostri ricercatori
Alessandro Vitale
pubblicato il 06-09-2023

Tumore al seno: l'importanza del microambiente tumorale



Aggiungi ai preferiti

Registrati/accedi per aggiungere ai preferiti

Il microambiente influenza il tumore al seno, e i macrofagi sembrano coinvolti in questo processo. Sarebbe possibile “reindirizzarli” contro il tumore? La ricerca di Veronica De Paolis

Tumore al seno: l'importanza del microambiente tumorale

Negli ultimi anni la ricerca biomedica contro il cancro si è molto focalizzata sul cosiddetto microambiente tumorale, cioè la zona intorno al tumore composta da tessuti, cellule, vasi sanguigni e varie molecole. Il microambiente non è un luogo statico, ma si modifica grazie agli stimoli prodotti dalla neoplasia e, al contempo, può sostenere la crescita del tumore e diminuire il controllo del sistema immunitario. Questa relazione dinamica è importante anche nel cancro al seno.

Veronica De Paolis è ricercatrice presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, dove studia il ruolo dei cosiddetti macrofagi associati al tumore (TAM) – cellule immunitarie presenti all’interno della neoplasia che ne sostengono la crescita. Il suo progetto verrà sostenuto per tutto il 2023 grazie a una borsa di ricerca di Fondazione Veronesi nell’ambito del progetto Pink is Good, dedicato alla ricerca e alla cura dei tumori al femminile.

Veronica, raccontaci del tuo lavoro.

«Il nostro lavoro si focalizza sullo studio del microambiente tumorale e nasce dall’idea di individuare nuovi meccanismi o molecole bersaglio contro il tumore al seno, guardando in particolare ai macrofagi associati al tumore (TAM). Negli ultimi anni è diventato sempre più chiaro il coinvolgimento del microambiente tumorale nella progressione tumorale: diverse popolazioni cellulari possono formare una “nicchia protettiva” che alimenta il tumore stesso. Tra queste, i TAM svolgono un ruolo fondamentale e in diversi tipi di tumore sono associati a una prognosi negativa».

Perché?

«Nel tumore al seno triplo-negativo, i TAM contribuiscono ad “allontanare” i linfociti T citotossici (CD8+) che sono deputati a combattere il tumore. Per questo motivo i TAM sono bersagli dell'immunoterapia tumorale, una strategia terapeutica promettente che “modula” il sistema immunitario del paziente e che viene usata in combinazione con la chemioterapia. I risultati, però, sono ancora limitati».

Qual è l’obiettivo della vostra ricerca?

«Il nostro lavoro è capire i meccanismi alla base della loro “polarizzazione” dei TAM verso il tipo tumorale, cioè perché inizino ad aiutare il tumore nella sua crescita. In seguito, vorremmo trovare dei meccanismi o delle molecole che permettano di “rieducare” queste cellule immunitarie a riconoscere e combattere le cellule tumorali».

Come intendete portare avanti il vostro progetto durante quest’anno?

«Recentemente abbiamo dimostrato che nei TAM si forma un complesso di proteine inusuale (p65/p52), che è coinvolto nella via di segnalazione (un insieme di meccanismi a cascata, NDR) chiamata NF-kB. Il risultato è l’eccessiva produzione della proteina HSPG2, un componente fondamentale del microambiente tumorale, che regola alcuni geni importanti per il funzionamento dei TAM. Studieremo questa via di segnalazione e capiremo se sia coinvolta nel “cambiamento” dei macrofagi associati al tumore, da antitumorali a favorevoli per la crescita del tumore al seno».

Quali sono le prospettive a breve e a lungo termine?

«Questo meccanismo molecolare potrebbe rappresentare un nuovo tassello per comprendere appieno l’attivazione dei macrofagi tumorali. Le regioni di DNA che portano all’attivazione genica potranno essere utilizzate come nuovi bersagli terapeutici, in modo paziente-specifico. In futuro, l’obiettivo sarà quello di agire selettivamente nei TAM, cercando di contrastare effetti come la resistenza ai farmaci e l’azione ridotta del sistema immunitario».

Veronica, ricordi il momento in cui hai scelto di fare la ricercatrice?

«Da piccola ero affascinata da tutto ciò che riguardava il corpo umano e ricordo ancora l’entusiasmo quando alla scuola materna ci hanno spiegato quali fossero i nostri principali organi. Sono cresciuta vedendo e rivedendo tutte le VHS della collezione di “Esplorando il corpo umano”, e dicevo di voler diventare ricercatore o medico. La vera consapevolezza l’ho maturata tra le medie e il liceo, soprattutto grazie alla professoressa di biologia del liceo, ex ricercatrice, che ha contribuito ad alimentare la mia passione per la scienza e in particolar modo per la biologia umana».

Un momento della tua vita professionale che vorresti incorniciare e uno da dimenticare.

«Vorrei incorniciare il momento in cui ho saputo di aver vinto la borsa Veronesi, totalmente inaspettato ma appagante. Nei primi minuti non ho capito più nulla, poi ho realizzato che esperti nel campo hanno reputato il mio progetto valido ed è stato qualcosa di indescrivibile, che vale la pena ricordare in futuro. Di momenti brutti ce ne sono stati, ma non mi sento di dire di volerli dimenticare, perché è anche grazie a quegli episodi che oggi sono diventata la ricercatrice che sono».

Dove ti vedi fra dieci anni?

«Sicuramente a fare ricerca. Spero nel “mio” laboratorio, gestito con miei fondi e progetti, contribuendo a mia volta a far crescere giovani ricercatori».

Cosa ti piace di più del tuo lavoro?

«La soddisfazione che ti lascia quando riesci a concludere un esperimento, o un lavoro, capendo che l’ipotesi avanzata era corretta. Ti fa capire che, passo dopo passo, siamo sempre più vicini a scoprire nuovi meccanismi che porteranno a nuove cure. Ti dà tanta speranza».

E cosa invece eviteresti volentieri?

«Il dover dimostrare continuamente agli altri il proprio valore e sentirsi sempre sotto esame o giudicati. Sicuramente la competizione può aiutare a dare il meglio, ma delle volte ti scontri con realtà dove non c’è una competizione costruttiva».

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Progresso, curiosità, avanzamento tecnologico».

Una figura che ti ha ispirato nella tua vita professionale.

«Rita Levi-Montalcini, soprattutto nei primi anni di laboratorio tra la tesi e il dottorato. Mi ha colpito molto la sua tenacia, una giovane donna che nonostante la guerra e la sua condizione sociale non ha smesso di rincorrere un sogno. Mi ha dato la spinta giusta per continuare a provarci, fino alla fine, dando sempre il meglio».

In cosa, secondo te, può migliorare la scienza e la comunità scientifica?

«Sicuramente la comunità scientifica potrebbe migliorare facendo più network. Lo abbiamo visto con il coronavirus, ottenendo un vaccino in tempi molto più celeri anche grazie alla totale sinergia tra gruppi di ricerca a livello mondiale. Non si riuscirà a farlo con tutte le malattie, ma delle collaborazioni più ampie, soprattutto con uno scambio di ricerche, idee e materiali, potrebbe fare la differenza».

Pensi che ci sia un sentimento antiscientifico in Italia?

«La figura del ricercatore non è ben definita. Spesso viene associata direttamente alle industrie farmaceutiche, facendo pensare ci sia sempre un interesse economico aziendale dietro. Si è iniziato a parlare di più dei ricercatori italiani grazie alle campagne di richiesta fondi delle varie associazioni, ma c’è ancora molto lavoro da fare».

Cosa fai nel tempo libero?

«Mi piace molto viaggiare, vedere film e anime giapponesi, ascoltare musica. Mi diverto molto anche a fare lavori di bricolage, partendo dalla progettazione alla realizzazione, anche se delle volte ci impiego mesi».

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita.

«Vedere l’aurora boreale, perché si riesce a percepire l’energia che viene sprigionata già dai colori».

Sei felice della tua vita?

«Sì, e mi sento anche molto fortunata perché sono riuscita a fare un lavoro che ho veramente scelto, dal primo giorno di studio».

La cosa che più ti fa arrabbiare.

«Le ingiustizie, di qualsiasi tipo o natura».

Il film che più ti piace o ti rappresenta?

«Edward mani di forbice, un film che ho visto tantissime volte. Anche se sembra una storia banale, per me ha un profondo significato sociale».

Cosa vorresti dire alle persone che scelgono di donare a sostegno della ricerca scientifica?

«Vorrei dire grazie per la fiducia che ripongono nella ricerca e soprattutto in noi ricercatori. Vorrei dire invece a chi è scettico, o a chi non ha mai donato, di farsi trasportare dal sentimento che guida chi dona perché non c’è cosa più bella che aiutare il prossimo, sia contribuendo economicamente che in prima persona mettendoci impegno e passione».


Articoli correlati


In evidenza

Torna a inizio pagina