Chiudi

Io non sono un animalista

Trovo sbagliato etichettare una persona che ama e rispetta gli animali,  col termine di animalista. E  mi dispiace  quando io stesso vengo definito così, come se avessi qualcosa di diverso o di più rispetto a tutti coloro che sostengono la difesa dei diritti degli animali.  Se essere animalista significa rispettare gli animali in quanto esseri viventi, con pari dignità e gli stessi diritti che spettano a tutti gli esseri viventi, non vedo alcuna ragione di essere chiamato “animalisti”, visto che  la maggioranza  della gente dichiara  di amarli. Trovo in questa classificazione la tendenza a trasformare un sentimento civile in una bandiera dietro la quale invece di un confronto di idee si propende a uno scontro polemico e ideologico.

Io non sono un animalista

Trovo sbagliato etichettare una persona che ama e rispetta gli animali,  col termine di animalista. E  mi dispiace  quando io stesso vengo definito così, come se avessi qualcosa di diverso o di più rispetto a tutti coloro che sostengono la difesa dei diritti degli animali.  Se essere animalista significa rispettare gli animali in quanto esseri viventi, con pari dignità e gli stessi diritti che spettano a tutti gli esseri viventi, non vedo alcuna ragione di essere chiamato “animalisti”, visto che  la maggioranza  della gente dichiara  di amarli. Trovo in questa classificazione la tendenza a trasformare un sentimento civile in una bandiera dietro la quale invece di un confronto di idee si propende a uno scontro polemico e ideologico.

Ogni volta che un fatto di cronaca  riporta alla ribalta questo tema, subito scoppia la polemica sulla sperimentazione  animale, tra difensori dei diritti degli animali che accusano l’altra parte di procedere nel chiuso dei laboratori a truci pratiche di vivisezione e i ricercatori scientifici che sono a loro volta difensori dei diritti dei malati di poter avere nuovi e più efficaci farmaci ottenibili solo con la ricerca scientifica attraverso cui anche la sperimentazione animale deve passare.

Vivisezione, va subito precisato, è un termine anacronistico e non più rispondente alla realtà, ma viene utilizzato spesso per suscitare  visioni di orrore e mi stupisce come questa vecchia polemica non accenni a risolversi malgrado i contendenti siano entrambi dalla parte del giusto. Hanno infatti ragione coloro che lottano perché non siano inflitte inutili sofferenze ai poveri animali; ma non hanno torto i ricercatori, quando sostengono che gli esperimenti sugli animali consentono di sviluppare farmaci più efficaci e meglio tollerati.

Appartenendo a entrambe le categorie, penso di conoscere abbastanza a fondo sia le ragioni degli animalisti sia quelle dei ricercatori. Difendo a tal punto i diritti degli animali che non ne mangio la carne. Sono vegetariano da sempre per ragioni filosofiche, ho il massimo rispetto della vita di chiunque, specie quando non può far valere le proprie ragioni. Il movimento animalista ha molti meriti tra cui quello di aver imposto precisi limiti alla sperimentazione animale, di aver promosso lo sviluppo di metodi di studio (su modelli matematici, su colture cellulari e altri ancora) che oggi sono un punto fermo a livello internazionale.

Come medico-ricercatore che ha dedicato più di mezzo secolo alla lotta contro il cancro e per la vita – in qualità e quantità – del paziente, non posso però sottrarmi ad alcune considerazioni, che spero siano condivise (o quanto meno ascoltate) anche dai paladini dei diritti animali. L’affermarsi delle tecniche alternative ha ridotto, ma non azzerato, l’utilizzo di animali nella ricerca scientifica. Se i test di efficacia di un farmaco si possono realizzare su cellule tumorali in coltura, cioè in vitro, quelli di tollerabilità (quale dose massima di un certo farmaco si può somministrare senza incorrere in effetti tossici? quanto tempo deve trascorrere tra una dose massima e la successiva?) si possono eseguire prevalentemente in vivo,  cioè sul vivente.  E allora è giocoforza servirsi degli animali: lo si fa nei migliori centri di biomedica con un preciso obbligo statuito a livello mondiale. E cioè che “fattore essenziale della ricerca sull’animale è l’assenza di dolore, di angoscia e anche di semplice disagio dell’animale”.

Il vero dramma degli animali è come sono trattati da tutti noi e non dai ricercatori scientifici. Il vitello, uno degli animali più evoluti nella scala neuropsichica e che soffre molto di più di quelli usati in laboratorio come cavie, non trova molti oppositori contro la fine terribile cui viene sottoposto nei mattatoi per garantire le belle “fettine di vitello” sulle nostre tavole.

Umberto Veronesi



Commenti (0)

Torna a inizio pagina