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Matteo Gullì
pubblicato il 15-05-2017

Studio le origini della sindrome di Rett



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Nella Sindrome di Rett vi è un eccesso di radicali liberi. Laura Baroncelli lavora per capirne il legame

Studio le origini della sindrome di Rett

La sindrome di Rett è una grave patologia neurologica dello sviluppo, riconosciuta oggi come la seconda causa di ritardo mentale nella popolazione femminile. Con un’incidenza di 1 su 10.000 nelle bambine e 1 su 30.000 nella popolazione generale, la malattia si manifesta attorno al secondo anno di vita dopo un periodo di crescita apparentemente normale. In questa fase le piccole vivono un arresto dello sviluppo e una regressione delle capacità acquisite, fino a mostrare i sintomi tipici: perdita delle abilità comunicative e motorie, microcefalia, ridotta capacità di interazione con l’ambiente, comparsa di movimenti stereotipati delle mani, difficoltà respiratorie.

Nonostante la genetica molecolare abbia identificato mutazioni del gene MECP2 nella maggior parte dei pazienti, le cause della patologia sono ancora da ritenersi sconosciute. Per questo, la ricerca di strategie farmacologiche efficaci continua ad essere fondamentale. Sulla base delle evidenze raccolte fino ad oggi, un ruolo nell’insorgenza della sindrome potrebbe spettare all’alterazione dei mitocondri (piccoli organelli coinvolti nel metabolismo cellulare) e dell’equilibrio delle reazioni chimiche di ossidazione e riduzione che avvengono al loro interno.

A seguire questa strada è la biologa ravennate Laura Baroncelli, che grazie alla borsa semestrale offerta dalla Fondazione Umberto Veronesi sta svolgendo il suo lavoro di ricerca presso l’Università di Göttingen, in Germania.

Laura, qual è più nel dettaglio l’obiettivo del tuo progetto?

«Ormai da anni la ricerca ha dimostrato come mutazioni del gene MECP2, localizzato sul cromosoma X, siano associate alla sindrome di Rett. Tuttavia, ancora oggi non siamo riusciti a spiegare esaustivamente le dinamiche che stanno alla base dell’insorgenza della malattia. Numerose evidenze suggeriscono che un’alterazione dei mitocondri e dell’equilibrio delle reazioni chimiche di ossidazione e riduzione (redox) che in essi avvengono provocano una condizione di stress ossidativo, causano cioè un’eccessiva produzione di radicali liberi: sostanze di scarto altamente reattive che possono danneggiare varie componenti della cellula. Il mio lavoro mira a valutare la correlazione tra questa condizione e la comparsa della sindrome. Per meglio chiarire l’interazione tra metabolismo mitocondriale, equilibrio redox e funzione neuronale nell’insorgenza e nella progressione del morbo, il primo obiettivo di questo progetto è studiare le dinamiche redox nelle fasi iniziali della patologia. Questa analisi sarà possibile grazie all’utilizzo di sofisticate tecniche di microscopia e di un nuovo modello animale che riproduca la sindrome di Rett. Il modello in vivo sarà inoltre impiegato per testare una possibile terapia basata su una combinazione di antiossidanti».

Quali prospettive pensi che aprirà questo lavoro per la salute umana?

«Al momento non esistono cure risolutive per la sindrome di Rett. Finora la terapia farmacologico ha dato risultati discreti, ma il trattamento consigliato rimane principalmente quello psicomotorio. Verificare il coinvolgimento delle reazioni redox nelle fasi precoci della sindrome ci permetterà di aggiungere un tassello nella comprensione del funzionamento di questa patologia e, eventualmente, di identificare nuovi target terapeutici. Gli studi sul modello in vivo, a questo proposito, saranno di fondamentale importanza».

Al momento stai portando avanti le tue ricerche in Germania. Quali sono i vantaggi di lavorare all’estero?

«La borsa offerta dalla Fondazione Veronesi mi ha dato la possibilità di condurre il mio lavoro presso il Centro di Fisiologia e Patofisiologia dell’Università di Göttingen, sotto la supervisione del Prof. Muller. È un’esperienza che si sta rivelando utilissima sia dal punto di vista professionale che personale, perché mi costringe ad uscire dalla comfort zone e a confrontarmi non solo con gli altri ma anche con me stessa. Stare lontani dal solito contesto, inoltre, è un’occasione che spesso stimola a far emergere le proprie reali potenzialità».

Cosa ti appassiona del lavoro da ricercatrice?

«È un lavoro ricco di stimoli: l’aggiornamento costante nel campo scientifico, la soddisfazione di scrivere un articolo alla fine di un progetto, il feedback ottenuto sul proprio lavoro ai meeting e ai convegni, l’appagamento nel conquistare l’attenzione degli studenti».

Non c’è nulla che invece ti avvilisce?

«Senz’altro la precarietà e la continua ricerca di fondi. Sono aspetti che alla lunga possono essere fonte di frustrazione».

Hai qualche hobby al di fuori del campo scientifico?

«Cerco sempre di ritagliarmi spazio per lo sport e per il volontariato, anche se in verità il tempo libero scarseggia!».

C’è un luogo che vorresti visitare almeno una volta nella vita?

«La Patagonia».

Qual è la cosa che più ti fa arrabbiare?

«L’ipocrisia».

Hai un film o un libro da cui ti senti rappresentata?

«”Tre colori – Film Blu”, il primo della trilogia del regista polacco K. Kieslowsky». 


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