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Neuroscienze
Camilla De Fazio
pubblicato il 09-06-2025

Staminali per la cura del Parkinson: tra ottimismo e prudenza



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Le terapie con cellule staminali per il Parkinson mostrano segnali incoraggianti, ma i dati sono ancora preliminari. Sicurezza confermata, efficacia tutta da dimostrare

Staminali per la cura del Parkinson: tra ottimismo e prudenza

Le terapie cellulari a base di cellule staminali rappresentano un approccio promettente per il trattamento della malattia di Parkinson. L’idea è quella di sostituire i neuroni dopaminergici degenerati, affrontando così la causa primaria dei sintomi motori della malattia. Ad aprile di quest’anno, la rivista Nature ha pubblicato i risultati di due studi - uno giapponese e uno statunitense - che confermano la sicurezza di questo tipo di farmaci. La notizia è incoraggiante, ma i dati sono ancora preliminari e devono essere valutati con cautela.

INTERVENIRE DOVE SERVE

Negli ultimi anni sono stati avviati numerosi progetti di ricerca che sperimentano l’uso delle cellule staminali nei pazienti con Parkinson, tra cui gli studi giapponese e americano pubblicati su Nature, e il progetto europeo STEM-PD. Ma perché proprio il Parkinson, rispetto ad altre malattie neurodegenerative? «Il Parkinson è una malattia che, a differenza dell’Alzheimer, potrebbe rispondere più facilmente a un intervento cellulare mirato», spiega il professor Fabio Blandini, Direttore Scientifico dell’IRCCS Policlinico Maggiore di Milano. «È caratterizzato da una lesione relativamente circoscritta, localizzata principalmente nella substantia nigra, una regione del mesencefalo». I neuroni di quest’area producono dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per la regolazione dei movimenti. La loro degenerazione è la principale causa dei sintomi motori tipici del Parkinson. «Intervenire localmente potrebbe quindi essere efficace». Attualmente, l’unico trattamento disponibile per alleviare i sintomi motori è la levodopa, utilizzata ormai da circa sessant’anni: un precursore della dopamina che viene convertito in dopamina nei neuroni ancora funzionanti. «Si tratta però di una terapia sintomatica, che non blocca la progressione della malattia», sottolinea Blandini.

COME FUNZIONA LA TERAPIA CON LE STAMINALI?

L’obiettivo delle nuove terapie sperimentali è quello di sostituire i neuroni dopaminergici persi con nuovi neuroni generati in laboratorio. I due studi pubblicati su Nature sono simili: a un gruppo di pazienti (una decina, con un’età media di 60 anni) sono state iniettate cellule staminali differenziate in precursori di neuroni dopaminergici, in una zona specifica del cervello (il corpo striato). A distanza di un anno e mezzo o due, non sono emerse reazioni avverse gravi, e sono stati osservati i primi segnali – ancora molto preliminari – di efficacia: un miglioramento delle funzioni motorie. «Tuttavia, questi studi non erano disegnati per misurare l’efficacia clinica, ma per valutare la sicurezza e la tollerabilità del trattamento», precisa Blandini. «Uno dei rischi maggiori legati all’uso delle cellule staminali è la possibilità che proliferino in modo incontrollato, dando origine a tumori. Questo, fortunatamente, non si è verificato». Le cellule iniettate sono rimaste localizzate nell’area bersaglio e hanno iniziato a produrre dopamina. Negli Stati Uniti è attualmente in corso uno studio di fase 3 che coinvolgerà 102 pazienti. Questo studio clinico randomizzato valuterà l’efficacia della terapia, confrontando i risultati tra chi riceve le cellule staminali e chi no. 

COME VENGONO PRODOTTE LE TERAPIE?

Le strategie di produzione delle cellule variano. Alcuni gruppi utilizzano cellule staminali embrionali umane, altri invece cellule pluripotenti indotte (iPSC), ottenute riprogrammando cellule adulte (ad esempio del sangue) per riportarle a uno stato simile a quello embrionale. Lo studio giapponese impiega le iPSC, evitando così problemi etici legati all’uso di embrioni, e rendendo teoricamente possibile anche l’autotrapianto, cioè l’uso di cellule derivate dallo stesso paziente. Lo studio americano, invece, utilizza cellule embrionali umane, considerate ideali per ottenere grandi quantità di neuroni dopaminergici, ma che sollevano questioni etiche. Anche il progetto europeo STEM-PD, attivo tra Svezia e Regno Unito, adotta questa seconda strategia. Si trova ancora in una fase iniziale (fase I/II), e i risultati sono attesi su una decina di pazienti. Quello del tipo di cellule usate sembra un dettaglio tecnico, ma non lo è: in Italia, le terapie basate su cellule staminali embrionali pongono ancora diversi interrogativi, non solo etici ma anche legislativi. «La normativa italiana prevede limiti all’uso di embrioni ai fini di ricerca e sperimentazione», nota Paolo Foggi, direttore del Settore Innovazione e Strategia del Farmaco dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). D’altra parte, aggiunge, «le normative a livello dei diversi Stati Membri EU non sono uniformi ed è possibile la produzione di prodotti a base di cellule staminali embrionali di origine umana in diversi Paesi europei» Se e nel momento in cui, queste terapie verranno approvate in Europa, si cercherà di capire se, nonostante le restrizioni italiane, sarà possibile approvare e rimborsare nel Paese una terapia basata su cellule embrionali sviluppata all’estero.

APPROVAZIONE: TEMPI E REGOLE

In ogni caso, «ci vorrà ancora del tempo prima che questi trattamenti diventino disponibili per i pazienti», agginge Foggi. Se gli studi di fase 3 dimostreranno efficacia e sicurezza, potrà iniziare il processo di approvazione regolatoria. A livello europeo, il farmaco dovrà essere prima valutato dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA), con un parere da parte del Comitato per le Terapie Avanzate (CAT) e del Comitato per i Medicinali per Uso Umano (CHMP). Una volta ottenuta l'autorizzazione centralizzata, l’AIFA potrà esprimersi sulla rimborsabilità e l'accesso in Italia. «Negli ultimi anni sono stati introdotti diversi strumenti per accelerare l’approvazione dei farmaci innovativi, soprattutto quando rispondono a bisogni terapeutici non soddisfatti, sia per quanto riguarda l’autorizzazione che la rimborsabilità», aggiunge Foggi. «Se l’iter procede senza ostacoli, il tempo necessario per l’autorizzazione e la disponibilità effettiva può ridursi a uno o due anni dal momento in cui i dati sono sottomessi a EMA».

NON SOLO DOPAMINA

C’è un’ultima ragione per cui è importante contenere l’entusiasmo: anche se le ricerche in corso dovessero dimostrare un’efficacia clinica, non è detto che queste terapie riescano a bloccare la progressione della malattia. «La perdita di dopamina è solo una parte della storia del Parkinson», spiega Blandini. «La malattia è il risultato di una complessa cascata neurodegenerativa». Un ruolo chiave lo gioca l’alfa-sinucleina, una proteina che si accumula nei neuroni formando i cosiddetti corpi di Lewy, strutture tossiche che compromettono la sopravvivenza cellulare. A questo si aggiunge una neuroinfiammazione cronica, mediata dall’attivazione della microglia, il “sistema immunitario” del cervello, che aggrava ulteriormente il danno neuronale. Questi processi coinvolgono molte aree cerebrali oltre la substantia nigra, e sono responsabili anche di sintomi non motori – come disturbi del sonno, depressione, deficit cognitivi – sempre più centrali nella gestione del Parkinson. «Non è solo una malattia del movimento. Pensare che un singolo approccio possa risolvere un quadro così complesso rischia di essere riduttivo, ma ciò non toglie che i risultati dei due studi siano di grande interesse e possano aprire una nuova fase nella lotta al Parkinson», conclude Blandini.


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