Utilizzati sin dalle prime fasi, gli anticorpi coniugati permettono un miglior controllo della malattia. I risultati presentati ad ASCO

Il tumore al seno metastatico sta diventando sempre di più una malattia che può essere tenuta sotto controllo. A ribaltare lo scenario -fino a pochi anni fa dominato dalla sola chemioterapia- sono gli anticorpi coniugati, farmaci di nuova generazione che uniscono la selettività degli anticorpi monoclonali alla potenza della chemioterapia, con l’obiettivo di colpire in modo mirato le cellule tumorali risparmiando i tessuti sani. Al congresso dell'American Society of Clinical Oncology (ASCO) sono stati presentati due studi di fase 3 (DESTINY-Breast09 e ASCENT-04) confermano che, sia nel carcinoma HER2-positivo che nel triplo negativo, gli anticorpi coniugati possono offrire benefici concreti già come prima linea di trattamento. Una rivoluzione terapeutica che, in un numero crescente di casi, sta cambiando il corso naturale della malattia aprendo la strada a un controllo più duraturo nel tempo.
GLI ANTICORPI CONIUGATI
Fino a pochi anni fa per il trattamento del tumore al seno metastatico le opzioni erano fortemente limitate. Dopo la terapia endocrina, utilizzata nelle fasi iniziali della malattia, lo standard di cura era rappresentato quasi esclusivamente dalla chemioterapia, con benefici spesso modesti e un carico importante di effetti collaterali. Oggi, però, lo scenario sta cambiando grazie agli anticorpi coniugati, farmaci innovativi che uniscono un anticorpo in grado di riconoscere bersagli specifici presenti sulle cellule tumorali a un agente chemioterapico ad alta potenza. Una strategia di cura che consente di colpire il tumore in modo selettivo, aumentando l’efficacia e riducendo la tossicità. In questi ultimi anni gli anticorpi coniugati -come raccontato in questo nostro approfondimento- si sono affermati come un nuovo pilastro del trattamento del tumore al seno metastatico, aprendo possibilità terapeutiche prima impensabili.
UTILIZZARLI IL PRIMA POSSIBILE
Fino ad oggi, gli anticorpi coniugati hanno mostrato risultati eccellenti soprattutto nelle linee successive di trattamento, in pazienti già sottoposte a più cicli di terapia. I dati accumulati negli ultimi anni ne hanno consolidato il ruolo nella seconda e terza linea, cambiando in modo significativo le prospettive di molte donne con malattia avanzata. Ma ora, grazie agli studi presentati ad ASCO, questi farmaci si stanno ritagliando un ruolo sempre più centrale anche come prima strategia di cura. Una svolta che potrebbe modificare profondamente il paradigma terapeutico, portando l’innovazione là dove può fare la differenza maggiore: all’inizio del percorso di trattamento.
LO STUDIO NEI TUMORI HER-2 POSITIVI
Il primo grande risultato è quello dello studio DESTINY-Breast09 che ha coinvolto oltre 1.100 pazienti con tumore al seno metastatico HER2-positivo. I risultati parlano chiaro: la combinazione di trastuzumab deruxtecan e pertuzumab ha ritardato la progressione della malattia per una media di oltre 40 mesi, rispetto ai circa 27 mesi ottenuti con la terapia standard a base di taxano, trastuzumab e pertuzumab. In altre parole, le pazienti trattate con il nuovo schema sono rimaste più a lungo senza peggioramento della malattia. «Si tratta del primo studio in oltre un decennio a migliorare l’efficacia nel trattamento di prima linea di questa forma di tumore -spiega Giuseppe Curigliano, presidente eletto ESMO e Direttore Divisione Sviluppo di Nuovi Farmaci per Terapie Innovative allo IEO di Milano.- I dati mostrano un beneficio netto, con risposte più durature e profonde». Anche l’Italia ha avuto un ruolo importante. «Padova è stato il primo centro italiano a trattare pazienti nello studio -ricorda Valentina Guarneri, direttrice dell’Oncologia 2 all’Istituto Oncologico Veneto-. I risultati confermano che trastuzumab deruxtecan ha il potenziale per diventare il nuovo standard di cura in prima linea».
LO STUDIO NEL TRIPLO NEGATIVO
Un altro risultato importante arriva dallo studio ASCENT-04, condotto su donne con tumore al seno triplo negativo metastatico, una delle forme più aggressive e difficili da trattare. In particolare, lo studio si è concentrato sulle pazienti con espressione di PD-L1, per le quali oggi la prima linea prevede l’uso dell’immunoterapia pembrolizumab in combinazione con la chemioterapia. I ricercatori hanno confrontato questo schema con una nuova combinazione basata su pembrolizumab e l’anticorpo coniugato sacituzumab govitecan. Le pazienti trattate con la nuova associazione hanno vissuto in media 11,2 mesi senza progressione della malattia, rispetto ai 7,8 mesi del gruppo che ha ricevuto la terapia standard: un miglioramento del 35% nel controllo della malattia. «Usare sacituzumab govitecan insieme a pembrolizumab è più efficace rispetto allo standard attuale – ha dichiarato Sara Tolaney, oncologa al Dana-Farber Cancer Institute e coordinatrice dello studio –. È un dato clinicamente rilevante per un gruppo di pazienti che, finora, ha avuto a disposizione opzioni molto limitate». Anche la tendenza a una maggiore sopravvivenza globale, seppur ancora preliminare, va nella stessa direzione, rafforzando l’idea che gli anticorpi coniugati possano trovare spazio già all’inizio del percorso terapeutico.
UNO SCENARIO IN CONTINUA EVOLUZIONE
I dati presentati all’ASCO confermano che lo scenario del tumore al seno metastatico sta cambiando rapidamente. Gli anticorpi coniugati, fino a poco tempo fa riservati alle linee successive di trattamento, stanno guadagnando spazio già in prima linea, offrendo nuove opportunità in contesti clinici molto diversi tra loro. Dall’HER2-positivo al triplo negativo, queste terapie stanno ridefinendo le strategie terapeutiche e aprendo la strada a un controllo della malattia sempre più duraturo. «Questi farmaci stanno funzionando così bene – ha commentato Sara Tolaney – che potremmo presto iniziare a ragionare su strategie più flessibili, come trattamenti a tempo o approcci di mantenimento. L’obiettivo è massimizzare i benefici, ridurre la tossicità e migliorare la qualità di vita delle pazienti». Una rivoluzione terapeutica che sta cambiando il corso della malattia e che in futuro potrebbe riguardare anche altre neoplasie.

Daniele Banfi
Giornalista professionista del Magazine di Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.