Solo una piccola parte dei casi è causata da mutazioni genetiche ereditarie. Ma conoscere il profilo genetico può guidare le nuove terapie e aiutare a stimare il rischio individuale

Nel 95% dei casi l’Alzheimer non è causato da mutazioni ereditarie, ma la genetica ha comunque un ruolo centrale: analizzare il DNA può aiutare a stimare il rischio di ammalarsi e a personalizzare l’uso dei nuovi anticorpi anti-amiloide. È quanto sottolinea un recente studio pubblicato su Neurology Genetics, che fa il punto sulle conoscenze attuali. Ma attenzione: i test genetici non danno certezze e, fuori da contesti clinici specifici, rischiano di generare ansia più che beneficio.
ALZHEIMER A ESORDIO PRECOCE E A ESORDIO TARDIVO
Negli anni Ottanta sono stati identificati alcuni geni legati alla forma familiare dell’Alzheimer a esordio precoce, che si manifesta tra i 50 e i 60 anni e rappresenta meno del 5% dei casi totali. In queste rare situazioni, una singola mutazione genetica è sufficiente a causare la demenza. «I geni coinvolti sono tre: APP, PSEN1 e PSEN2, tutti responsabili della regolazione del metabolismo e della produzione della beta-amiloide», spiega Alessandro Padovani, Presidente della Società Italiana di Neurologia (SIN). Negli ultimi tre decenni sono state poi individuate moltissime altre mutazioni, meno compromettenti di quelle nei geni appena citati, coinvolte in varia misura allo sviluppo della malattia a esordio tardivo (che si manifesta dopo i 70 anni). Uno dei geni implicati si chiama APOE e svolge un ruolo nel metabolismo dei lipidi (i grassi), in particolare nel trasporto del colesterolo e dei trigliceridi nel sangue e nel sistema nervoso centrale. È stato scoperto che una variante di APOE aumenta il rischio di Alzheimer (ε4), mentre altre varianti, esercitano un effetto protettivo, riducendo il rischio di sviluppare la malattia.
GLI STUDI SULL’INTERO GENOMA
Oggi i ricercatori sono in grado analizzare le varianti presenti in tutto il Dna e di confrontare quelle delle persone sane con quelle di persone affette da patologie come l’Alzheimer. Grazie a questi studi, chiamati GWAS (Genome-Wide Association Study), si possono identificare le piccole variazioni genetiche che contribuiscono al rischio di insorgenza di una malattia. In questo modo è stata messa in evidenza la natura poligenica dell’Alzheimer (sono stati identificati oltre dieci loci – regioni di un gene – associati alla malattia) e sono stati sviluppati punteggi per stimare, in base alle caratteristiche genetiche di ogni individuo, il rischio di ammalarsi di Alzheimer.
COSA SAPPIAMO DELL’ALZHEIMER GRAZIE ALLO STUDIO DEI GENI
Lo studio dei geni ha dimostrato che esistono numerosi processi implicati nello sviluppo dell’Alzheimer. Oltre all’accumulo di beta amiloide e la fosforilazione della proteina tau, meccanismi già noti, è stata osservata l’importanza della neuro-infiammazione, del trasporto di alcune proteine e del metabolismo dei lipidi. «A partire dalle conoscenze genetiche possiamo riflettere sui fattori ambientali che contribuiscono a prevenire l’insorgenza della malattia. Sappiamo per esempio che le sindromi metaboliche, come il diabete, spingono i neuroni a produrre più amiloide e che alcuni fenomeni, come l’esposizione all’inquinamento atmosferico o un’alterazione del microbiota intestinale, possono aumentare l’infiammazione generale. Possiamo quindi immaginare una serie di interventi sui fattori ambientali e comportamentali come questi, in grado di ritardare la comparsa della malattia».
QUANDO SOTTOPORSI A UN TEST DI SCREENING
Sono disponibili dei test di screening per verificare la propria predisposizione genetica all’Alzheimer, ma quando ha senso farli e come funzionano in Italia? «In generale consigliamo alle persone sane di non sottoporsi allo screening, a meno che a un loro parente di primo grado non sia stata diagnosticata una forma precoce di Alzheimer. Se un genitore, fratello o sorella, manifesta i sintomi prima dei 70 anni, esiste un rischio per la persona, per quanto sana, di aver ereditato un gene che causa la malattia e potrebbe essere utile effettuare un’analisi genetica». Diverso è il discorso per le forme tardive di malattia, che non sono, come abbiamo visto, associate in modo univoco a un singolo gene, ma a una complessa combinazione di fattori genetici e ambientali. «Esistono dei profili di rischio che prendono in considerazione il contributo di geni diversi, ma riescono a predire la malattia nel 60% dei casi. Il restante 40% delle persone che risultano ad alto rischio non sviluppano l’Alzheimer». Quindi sottoporsi ai test rischia solo di confondere un individuo e di gettarlo in uno stato di ansia, almeno fino a quando non avremo la possibilità di offrire interventi terapeutici realmente efficaci nella cura della malattia.
QUANDO E PERCHÉ CHIEDERE UN’ANALISI DEL GENE APOE
Nello sviluppo e nell’uso di modelli di rischio è stato osservato che le variazioni nel gene APOE svolgono un ruolo fondamentale nel predire il rischio di sviluppare la malattia. Potrebbe quindi risultare utile effettuare l’analisi delle mutazioni in questo gene? «Né la società che rappresento, la SIN, né la Società Italiana di Genetica Umana (SIGU), hanno una risposta univoca a questa domanda. Possiamo dire che in caso di disturbo cognitivo può essere utile verificare la presenza di alterazioni di APOE, che possono fornire indicazioni sulla rapidità del declino cognitivo». D’altra parte è stato osservato che nei portatori della variante ε4 di APOE i nuovi anticorpi anti-amiloide (aducanumab, lecanemab, donanemab) funzionano, ma causano più spesso gli effetti collaterali chiamati ARIA, piccoli edemi o microemorragie visibili alla risonanza magnetica. Sapere se una persona è portatrice di ε4 aiuta quindi il neurologo a decidere dose, frequenza delle infusioni e schema di monitoraggio, motivo per cui il test genetico APOE sta diventando routine nei centri che prescrivono queste terapie nel mondo (l’unica approvata attualmente in Europa è lecanemab).
ATTENZIONE ALLA COMPONENTE PSICOLOGICA
Mentre però lo screening genetico per i pazienti con forme precoci e per i loro parenti di primo grado in genere è inserito nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e quindi è a costo del Servizio Sanitario Nazionale, la genotipizzazione di APOE non è coperta dal SSN, poiché la presenza di determinate varianti del gene, aumenta il rischio ma non determina con certezza lo sviluppo della malattia. In ogni caso, nota Padovani, l’esame, per quanto consista in un semplice prelievo del sangue da cui poi viene estratto e analizzato il Dna, prevede un processo più complesso. «Le strutture che effettuano l’analisi devono anche verificare se la persona che richiede lo screening non presenti particolari criticità che possano portare, in base ai risultati ottenuti, a reazioni catastrofiche». Non bisogna dimenticare che i risultati di esami del genere, per quanto non necessariamente conclusivi, possono esercitare un enorme impatto psicologico, soprattutto considerando che non esistono ancora farmaci curativi.
VERSO LA PREVENZIONE PERSONALIZZATA
Nel momento in cui i profili di rischio genetico saranno più accurati, sarà possibile usarli per prevedere il livello di rischio e sulla base di questo, intervenire per ritardare il più possibile l’insorgenza della malattia. «Visto il periodo di grande progresso tecnologico che stiamo vivendo, penso che arriveremo presto a identificare un profilo di rischio genetico accurato che ci permetta di individuare i meccanismi patogenetici caratteristici di ogni singolo individuo», conclude Padovani. «Credo che questa sia la chiave per un intervento efficace sia in ambito oncologico che neurodegenerativo: individuare i fattori di rischio di ogni singolo individuo e intervenire precocemente. Probabilmente sarà questa la strada per una prevenzione personalizzata».