Dopo aver affrontato un tumore all’utero, l’una da paziente e l’altra da caregiver, hanno fondato un’associazione per aiutare i malati oncologici. Così una storia personale si è trasformata in una storia collettiva e istituzionale

«In questo inferno della malattia, a volte mi sembra di essere approdata in paradiso», scrive Laura nei suoi diari, iniziati dopo la diagnosi di tumore che le ha cambiato la vita. Da quell’esperienza personale, è nata un’organizzazione che oggi aiuta tanti malati oncologici e le loro famiglie a far valere il diritto alla salute, alla cura e, soprattutto, alla vita dopo il cancro.
In questo percorso Laura non è mai stata da sola, ma accompagnata da Clara, anzi Clarina come la chiama affettuosamente lei, sua sorella gemella che è stata insieme alla madre la sua caregiver principale. Oggi raccontano la loro storia, fatta inizialmente di paure, solitudine e sensi di colpa, trasformati nel tempo in forza, impegno sociale e appartenenza alla collettività. Lo stesso tumore, vissuto da prospettive diverse, ha dato una nuova direzione alle loro vite, potenziandole.
LA DIAGNOSI
Oggi Laura ha 36 anni, ma la diagnosi di tumore alla cervice uterina – non hpv correlato – è arrivata nel 2017, quando ne aveva solo 28.
«Il giorno in cui aspettavo il risultato della biopsia, dopo settimane di malessere e copiose perdite bianche, mi trovavo in sala d’attesa con mia madre. Picchiettavo la penna sulla cartella clinica e dondolavo le gambe. In fondo sapevo che stava per arrivare quella diagnosi, anche se sentirlo dire è tutta un’altra cosa. Ricordo ancora i volti della dottoressa, dell’infermiere e dello specializzando. “Lei ha un cancro, ma se seguirà tutto ciò che le diremo, ci sono buone possibilità di cura”».
Nei giorni successivi, l’esigenza principale di Laura è stata quella di raccogliere i "pezzetti" di sé che avvertiva sparpagliati dopo la diagnosi. Pur vivendo nelle Marche, ha scelto di curarsi al Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, una struttura specializzato che le offriva anche la calma e l'isolamento di cui sentiva bisogno.
«Il Friuli Venezia Giulia mi ha regalato una solitudine buona, calma e riflessiva, nella quale ho incluso solo mia madre, Clara e uno dei miei migliori amici, Alessandro, persone inevitabili nella mia vita».
IL VALORE DELLA MALATTIA
Per Clara, invece, la diagnosi è stata sinonimo di paura, smarrimento e senso di colpa. «Quando Laura mi ha comunicato di essere malata sono entrata in una sorta di bolla, incapace di associare la parola cancro a mia sorella, così giovane. Ho capito che eravamo impreparate. Avevamo conosciuto la malattia oncologica con la morte di nostro padre, diversi anni prima, ma in quel caso era accaduto tutto così velocemente da non permettere al tumore di entrare nella nostra quotidianità. Alcune paure ogni tanto mi invadevano la notte, facendomi perdere la speranza. “Se dovesse succedere qualcosa anche a me, sua caregiver principale, chi ci aiuterà e ci guarderà le spalle?” E anche il senso di colpa non ha tardato a farsi sentire. “Siamo gemelle, per giunta omozigoti, perché proprio a lei e non a me?”.
Laura, invece, non ha mai provato rabbia.
«Come è successo a me, succede a milioni di altre persone. Mi sono sempre chiesta “perché non a me? Non sono più speciale o migliore di nessuno”. Ho smesso di cercare un senso nella malattia e ho iniziato a cercarne il valore che, nel mio caso, ha coinciso con una nuova Laura, più aperta alla collettività e al sociale. Scrivere i diari durante il periodo di cura è stato il mio modo per risarcire l'assenza da casa, una sorta di testamento per la mia famiglia, in caso non fossi sopravvissuta. Ma anche uno strumento per elaborare quanto stava accadendo».
Quei diari, poi, si sono trasformati in un ponte con gli altri. Proprio da quelle pagine Laura, che stava costruendo la sua carriera nell’improvvisazione teatrale, ha creato uno spettacolo per raccontare la malattia.
IL PERCORSO DI CURA
Per curarsi, ha dovuto affrontare un’operazione complessa che l’ha privata dell’utero e, successivamente, un percorso di radio-chemioterapia.
«Pur avendo conservato le ovaie, radiotrattate, una gravidanza naturale era comunque esclusa a causa dell’assenza dell’utero», spiega Laura. «L'unica possibilità sarebbe stata congelare gli ovuli, da utilizzare successivamente all’estero tramite gestazione per altri, cosa oggi non consentita. Allora non ero informata sull'argomento, e dopo un intervento così invasivo l'idea di sottopormi a un altro trattamento era impensabile, fisicamente e mentalmente. Per questo ho rifiutato. Credo però che sia fondamentale garantire un'informazione completa, perché ogni donna possa compiere scelte davvero consapevoli».
CAMBIAMENTI E ADATTAMENTI
Il corpo di Laura ha attraversato molti cambiamenti.
«All’inizio ho perso 10 chili, poi, con la menopausa precoce, ho ripreso peso e ora faccio fatica a mantenerlo stabile. In un primo momento non riuscivo a riconoscermi, ma col tempo ho imparato a non giudicare e accettare il mio corpo».
A volte, però, è difficile far comprendere agli altri la sua condizione.
«Capita che abbia vampate improvvise, nebbie cognitive o malesseri che mi costringono a letto. Mi sento in colpa, soprattutto verso Clara, che spesso mette da parte se stessa per prendersi cura di me e di nostra madre».
Anche il ritorno alla vita sociale non è stato semplice.
«All’inizio mi sentivo a disagio perché gli amici, per timore di ferirmi, evitavano di parlare di mestruazioni o maternità. Ma io ho spiegato loro che è importante chiedere direttamente alla persona coinvolta se è infastidita o meno. Nel mio caso no, ma in generale evitare del tutto certe tematiche rischia di isolare ancora di più. Ho imparato a sbloccare le situazioni prendendo io stessa la parola su temi difficili, così ho ritrovato il mio posto con amici e colleghi».
IL RUOLO DEL CAREGIVER
«Stare accanto a Laura in questo periodo di assestamento – racconta Clara – è stato, ed è tuttora, impegnativo. Fare il caregiver non significa solo aiutare sul piano pratico, è soprattutto un impegno psicologico. Laura ha avuto attacchi di panico, ansie e nuovi sintomi da gestire. Ho dovuto imparare a ricordarmi che il suo corpo è diverso dal mio, che ogni suo malessere richiede attenzione. Il caldo che sente lei non è come il mio caldo, è tutto amplificato. E poi c'è una vicinanza emotiva che non finirà mai. Parliamo di una persona che, da giovanissima, ha vissuto un trauma profondo nel corpo e nella vita. Anche quando chi assistiamo è una persona intelligente, forte e altruista come lei, dentro quella forza ci sono fragilità profonde. Essere un buon caregiver significa riuscire a stare sempre un passo avanti, per non farsi trovare impreparati».
«In questo percorso – prosegue Clara – ho capito quanto sia importante che la società riconosca il ruolo dei caregiver. Non è un lavoro retribuito dal sistema sanitario o dallo Stato e spesso grava del tutto sulla famiglia, e soprattutto sulle donne. Dimenticarlo significa ignorare l’urgenza di riconoscere diritti concreti — nel mondo del lavoro, nella salute fisica e mentale, nell'accesso al supporto psicologico ed economico. È fondamentale creare reti di mutuo aiuto, perché i caregiver si sentono spesso sopraffatti, stremati, in colpa e abbandonati. Ci sono persone che riescono a riprendere in mano la propria vita, ma molte altre convivono con disabilità permanenti o malattie croniche – anche invisibili, come quella di Laura – e necessitano di assistenza costante».
IL TUMORE COME BUSSOLA
Per entrambe, il tumore ha segnato una svolta radicale, diventando un catalizzatore di emozioni, legami e consapevolezze. Non è stato solo una diagnosi, ma una trasformazione che ha inciso sul corpo di Laura e sulla mente di entrambe. Con il tempo, questo cambiamento le ha spinte a impegnarsi nella difesa dei diritti dei malati, per garantire maggiore attenzione e supporto a chi affronta esperienze simili, da paziente o da caregiver.
«La malattia mi ha dato una forza maggiore – racconta Laura –, mi sembra di aver vissuto sette vite in una sola. Un palloncino si è trasformato in una mongolfiera di emozioni, connessioni e relazioni. Il percorso di radio-chemioterapia mi ha fatto entrare in contatto con tante persone in cura, e ho capito di non essere sola. Anzi, con la mia diagnosi mi sono resa conto di avere anche delle ragioni per considerarmi fortunata. Senza il tumore, non so come sarebbe stata la mia vita. Nella mia mente non esistono alternative: la malattia mi ha fatto capire l'importanza di tornare alle radici, di esplorare le difficoltà nei territori più marginalizzati. Ho riscoperto il valore della collettività e della pluralità. Nel 2020, insieme a Clara e ad altri amici che mi sono stati vicini durante e dopo la malattia, abbiamo fondato l’associazione C’è Tempo. Si tratta di un'Organizzazione di Volontariato che opera in ambito oncologico, sulla disabilità e sui diritti. Siamo partiti in cinque e, dopo tre anni, ci siamo ritrovati alla Camera dei Deputati a supportare la legge sull’oblio oncologico. A maggio di quest'anno, invece, abbiamo presentato la nostra associazione in Senato per spiegare il nostro intento: lottare per il diritto alla salute in modo intersezionale affinché ogni paziente torni ad avere valore e dignità. L'associazionismo è un flusso continuo di persone meravigliose che credono nei miei stessi valori, e io ne faccio parte con orgoglio».
LAURA E CLARA DOPO LA MALATTIA
«La malattia fa schifo, è inutile nasconderlo. Ma vedere qualcuno che ami soffrire ti fa anche riscoprire la bellezza dei rapporti umani. Non ce l'avremmo mai fatta senza una rete di supporto così importante», aggiunge Clara. «È un universo che ti coinvolge e ti fa capire che il tumore e la malattia in generale non riguarda solo la persona che la vive, ma anche la famiglia, gli amici, e chiunque sia vicino. Inizialmente speravo che l’operazione e le cure mi avrebbero restituito la mia sorella di sempre, ma invece ho dovuto accettare una nuova Laura. E così ho fatto. Non ho più pensato: "Povera Laura, ha avuto il cancro". Oggi penso: "Laura è una persona nuova, una persona che senza quella malattia non avrebbe trovato la sua strada, né avrebbe aperto tante porte utili alla collettività, e anche a me". Da un giorno all’altro, ho preso una decisione radicale, mi sono licenziata perché mi sono resa conto che stavo vivendo una vita infelice. Senza quella sofferenza intensa non avrei mai avuto il coraggio di riconoscere che forse, fino a quel momento, non avevo vissuto davvero, ed era ora di cominciare a farlo».

Caterina Fazion
Giornalista pubblicista, laureata in Biologia con specializzazione in Nutrizione Umana. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e il Master in Giornalismo al Corriere della Sera. Scrive di medicina e salute, specialmente in ambito materno-infantile