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HIV e AIDS, una storia lunga un secolo

"Un caso non unico, ma parte di una, seppur piccola, serie di eventi". Come l'HIV è arrivato nel nostro sangue e nelle nostre vite

HIV e AIDS, una storia lunga un secolo

(nella foto: ricercatore al lavoro in un laboratorio di massimo contenimento, Centers for Disease Control and Prevention, 1987 - fotografo sconosciuto, Centers for Disease Control, via Wikimedia Commons) 

 

Quasi trentotto milioni e mezzo di persone affette dal virus dell’HIV nel mondo, un milione e mezzo di nuovi casi nel 2021 e 650.000 morti lo scorso anno a causa dell’AIDS. Questi i dati (Joint United Nations Programme on HIV/AIDS, UNAIDS) più aggiornati nella giornata mondiale che ricorre il 1 dicembre per la lotta contro l’AIDS, la sindrome da immunodeficienza acquisita, una malattia infettiva causata dal virus HIV. Ma quale la sua storia e la sua genesi?

LE ORIGINI

L’ipotesi più probabile è che il primo caso di infezione umana da virus HIV sia avvenuto intorno al 1920 in Camerun e, più precisamente, lungo il tratto camerunense del fiume Sangha, un affluente del Congo. Si trattava, con tutta probabilità di un viaggiatore diretto verso Léopoldville, l’attuale Kinshasa. Il personaggio in questione potrebbe essere stato infettato, probabilmente durante una battuta di caccia, da uno scimpanzé portatore di un ceppo virale molto simile all’HIV, ossia il SIV (simian immunodeficiency virus).

«Si tratterebbe in sostanza di uno spillover, dall’inglese, letteralmente “tracimazione”, cioè il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un’altra, compiendo così il cosiddetto salto di specie (ne abbiamo molto sentito parlare in relazione al Covid, ndr)», spiega Giuliano Rizzardini, Direttore del Dipartimento Malattie Infettive del ASST-FBF-SACCO, Faculty of Health Science University of the Witwatersrand, Johannesburg.

A stabilirlo uno studio sulla genesi e la storia iniziale dell'epidemia di AIDS condotta da un gruppo internazionale di virologi, biologi e genetisti diretti da Oliver G. Pybus, dell'Università di Oxford, e Philippe Lemey, dell'Università di Lovanio autori dell’articolo The early spread and epidemic ignition of HIV-1 in human populations, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Science nel 2014.

I ricercatori hanno così documentato ben tredici diversi episodi in cui un virus dell'immunodeficienza delle scimmie ha fatto il salto di specie e infettato l'essere umano. Ma solo il virus noto come HIV-1 di gruppo M è riuscito a diffondersi e a dar luogo a una vera e propria epidemia. Dunque, come ha sottolineato anche David Quammen, divulgatore scientifico statunitense nel suo libro Spillover (Adelphi, 2014), «l’HIV non è piombato sul genere umano una volta sola…. Quindi non si è trattato di un caso assai sfortunato, un solo evento straordinariamente improbabile che ha portato tremendo dolore all’umanità, come una cometa che attraversa gli spazi infiniti e viene a sbattere proprio sulla Terra spazzando via i dinosauri. Niente affatto. L’arrivo di HIV nel nostro sangue è stato un caso non unico, ma parte di una, seppur piccola, serie di eventi. Vista la natura delle nostre interazioni con i primati africani, sembra che ciò non sia poi così raro».

LA DIFFUSIONE E I SOTTOTIPI

La storia infatti, una volta raggiunta la città di Léopoldville, si è interrotta per quasi due decenni per proseguire poi, intorno al 1937 a Elisabethville, l’attuale Lubumbashi, la terza città della Repubblica Democratica del Congo e la capitale della provincia sudorientale dell'Alto Katanga. Solo due anni dopo il virus è arrivato a Bakwanga (Mbuji-Mayi), capoluogo del Kasai Orientale e uno dei principali centri dell'industria diamantifera della Repubblica Democratica del Congo. Qui si è verificata una differenziazione dei ceppi. In particolare, a Mbuji-Mayi si sarebbero sviluppati sia il sottotipo C del gruppo M, all'origine della metà circa di tutte le infezioni nell'Africa sub-sahariana, sia il sottotipo B. Quest’ultimo, responsabile della maggior parte delle infezioni in Europa e negli Stati Uniti. In Camerun, nel frattempo, era apparsa un’altra variante (O) rimasta però sostanzialmente confinata nel paese.

Fino al 1960 le varianti M e O hanno avuto un andamento epidemiologico analogo, ma da quella data in poi il gruppo M ha mostrato una capacità di diffusione tripla rispetto all’altro. È difficile però, secondo i ricercatori, spiegarne le ragioni. Fra le ipotesi più accreditate, il marcato sviluppo della prostituzione a Kinshasa e il riutilizzo di aghi non adeguatamente sterilizzati per somministrare farmaci e vaccini.

"SIAMO DI FRONTE A UNA NUOVA MALATTIA". ECCO L'AIDS

«Nel 1981, i Centers for Disease Control and Prevention americani» prosegue Rizzardini, «segnalano sul loro bollettino epidemiologico, il Morbidity and Mortality Weekly Report (Mmwr), un aumento improvviso e inspiegabile di casi di polmonite da Pneumocystis carinii in giovani omosessuali e di un raro tumore dei vasi sanguigni, il sarcoma di Kaposi. Sorge così il dubbio di essere di fronte a una nuova malattia». Poi l’articolo pubblicato sul New York Times del 3 luglio 1981 intitolato Rare cancer seen in 41 homosexuals (“Rari tipi di cancro in 41 omosessuali”). La rivista The Lancet intanto parla di “gay compromise sindrome”, mentre sui quotidiani nazionali di numerosi Paesi compaiono espressioni come “immunodeficienza gay-correlata (Grid)”, “cancro dei gay”, “disfunzione immunitaria acquisita”.

Alla fine dell’anno, però, appare evidente che la malattia colpisce anche gli eterosessuali arrivando fino in Europa. Il primo caso, fuori dagli USA, viene registrato in Inghilterra. Quando poi nel giugno 1982 si viene a conoscenza di un cluster fra maschi omosessuali nel sud della California, comincia a serpeggiare l’ipotesi che la patologia abbia un’origine virale. Poco dopo si verificano anche i primi casi tra gli emofiliaci, cioè individui portatori di un difetto ereditario della coagulazione del sangue, obbligati dunque a costanti trasfusioni. Durante il mese di agosto del medesimo anno, nel corso di un congresso promosso dalla Food and Drug Administration (Fda), viene utilizzato per la prima volta il terminesindrome da immuno-deficienza acquisita” per definire la malattia.

L’espressione sta a significare l’origine non ereditaria della patologia, acquisita attraverso un meccanismo di trasmissione ancora ignoto, e che consiste in una deficienza del sistema immunitario. “Sindrome” perché non è un’unica malattia, ma un insieme di manifestazioni patologiche. Alla fine del 1982 muore un bimbo emofiliaco a causa di una trasfusione infetta e si registra il primo caso di trasmissione materno-fetale.

IDENTIFICATO IL VIRUS. ARRIVA L'AZT

«Nel 1983 si comincia a discutere su come prevenire la trasmissione dell’AIDS», spiega Rizzardini, consci del fatto che la malattia si può trasmettere anche fra eterosessuali e non soltanto fra omosessuali come si riteneva all’inizio. Di quel periodo anche la diatriba circa la scoperta dell’agente responsabile della trasmissione stessa della malattia. «La disputa fra Robert Gallo e Luc Montagnier sulla titolarità della scoperta del virus responsabile dell’AIDS fu molto accesa e finì addirittura solo nel 1987. Furono Chirac e Reagan (allora presidenti della Francia e degli USA, ndr) a firmare quella che è passata alla storia come la “pace dell’Aids”. Le royalties sarebbero state divise a metà tra i due ricercatori, che avrebbero meritato entrambi il titolo di “scopritore dell’Aids". Ma da quando, nel 1990, si seppe che il virus di Gallo proveniva dai laboratori francesi, è opinione comune assegnare la scoperta al solo Montagnier. A livello terapeutico le prime cure che sembrano funzionare, risalgono proprio al famigerato 1987. Si tratta della zidovudina (Azt), molecola messa a punto nel 1964 dalla Burroughs Wellcome come farmaco antitumorale, poi rivelatasi in grado di rallentare la replicazione di Hiv. Vengono successivamente effettuati tentativi di cura con la combinazione di due antivirali».

UNA STORIA DI SUCCESSO: LE TERAPIE

«Nel 1996 avviene poi la grande svolta», spiega Rizzardini, «con l’utilizzo degli inibitori della proteasi, ossia farmaci dalla potente attività di blocco della replicazione virale, in grado di mutare totalmente la prognosi dei pazienti, donando loro una prospettiva di vita sovrapponibile ai soggetti non affetti dal virus HIV. Si trattava però di una somministrazione complicata dal punto di vista pratico: 25 pillole, suddivise in tre volte al giorno. Il 2006 è per questo un altro anno memorabile per la battaglia all’AIDS. È la data dell’introduzione della prima tripla combinazione di farmaci antiretrovirali in un’unica compressa, a singola somministrazione giornaliera. Per arrivare poi ai giorni nostri alla possibilità, tra qualche mese, di due iniezioni intramuscolo nello stesso momento ogni due mesi. La prospettiva, quella della “Terapia Lungamente Attiva”, cioè caratterizzata da iniziazioni a lento rilascio, addirittura diluite nell’arco di sei mesi. Dunque una storia di grande successo dal punto di vista terapeutico e di qualità di vita, anche perché curare il virus dell’HIV significa impedire la sua replicazione. Zero carica virale (si ottiene dopo circa un mese di terapia) vuol dire zero trasmissione».

PREVENIRE, SEMPRE FONDAMENTALE

«Fondamentale però», conclude Rizzardini, «la prevenzione. Oltre all’uso del preservativo, è quindi fondamentale sottoporsi periodicamente al test per HIV. Si tratta di test rapidi, effettuati su saliva o su una goccia di sangue con un pungidito. In caso di esito dubbio o positivo è necessaria poi un’ulteriore conferma tramite prelievo del sangue. Ancora oggi purtroppo più della metà delle persone sieropositive scoprono di aver contratto il virus a distanza di anni dall’infezione e dopo aver probabilmente contagiato altri individui. Un test utile dunque a debellare i 1.770 nuovi casi annui nel nostro Paese (3 su 100mila abitanti), ricordando che l’Italia ha una delle più basse percentuali europee (e mondiali) di persone affette dal virus HIV».



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