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L'emofilia, la "malattia dei re", il futuro della terapia genica

Nota come la “malattia dei re”, l’emofilia ha una storia molto più antica che risale alla tradizione ebraica

L'emofilia, la "malattia dei re", il futuro della terapia genica

In occasione della XVIII Giornata Mondiale dell’Emofilia, il Professor Pier Mannuccio Mannucci, ci racconta la storia di questa malattia. Già Direttore Scientifico dell’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Fondazione Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico, membro del Comitato Scientifico di Fondazione Veronesi, è lui stesso un “pezzo” importante della diagnosi e cura di questa patologia, 

SI PARTE DAL TALMUD

Il Talmud - la parola significa “studio”, “insegnamento”, “discussione” - è uno dei libri sacri dell’Ebraismo. Si tratta di un testo enorme, che consiste di sessantatré trattati, contiene un milione e ottocentomila parole che compongono trentasette volumi. Sebbene tratti di diritto, non è un codice legislativo, in senso stretto. È il verbale che registra le discussioni di migliaia di rabbini che avvennero nelle accademie babilonesi nei primi secoli dopo Cristo. Adin Steinsaltz (1937-2020), che fu il punto di riferimento nel panorama della religione ebraica a livello mondiale e completò una traduzione integrale più un commento del Talmud babilonese in ebraico, lo definì «il pilastro centrale che regge l’intero edificio spirituale e intellettuale della vita ebraica». «E, a proposito di emofilia - spiega Mannucci - il Talmud narra di come un rabbino avesse esonerato dalla circoncisione il terzo figlio maschio di una coppia i cui primi due figli erano entrambi deceduti a seguito di un eccessivo sanguinamento». Dunque la prima testimonianza scritta circa la storia dell’emofilia fa riferimento a un testo fondamentale della cultura ebraica.

DESCRITTA NEI TESTI ARABI MEDIEVALI

La storia dell’emofilia prosegue poi nel corso dei secoli, quando, nell’anno Mille, il medico arabo Albucasis (936-1013), ritenuto il più grande chirurgo del Medioevo e il padre fondatore della moderna chirurgia, descrisse nel suo trattato, Kitab al-Tasrif, una malattia identificabile appunto con questa patologia.

L’OTTOCENTO E LA PATOLOGIA DELLE CASE REALI

«Per la prima descrizione moderna dell’emofilia, dal greco ema (sangue) e filia (amicizia) - prosegue Mannucci - bisogna però attendere il 1803 quando il medico americano di Philadelphia, John Conrad Otto, pubblicò il Rapporto di una predisposizione all'emorragia in alcune famiglie. Egli comprese la principale caratteristica dell'emofilia, ossia la tendenza dei maschi a ereditare la condizione». A metà dell’Ottocento poi la malattia divenne una sorta di appannaggio delle case reali europee. «Avvenne quando la regina Vittoria (nell'immagine ritratta con la famiglia, Crystal Palace Exhibition, 1851, ndr) mise alla luce il principe Leopoldo, ovviamente del tutto ignara di essere portatrice sana dell’emofilia. Due delle cinque sorelle di Leopoldo, Alice, sposa di Luigi IV Granduca d’Assia, e Beatrice, sposa di Enrico di Battemberg attraverso i loro figli diffusero ulteriormente la loro malattia alle casate imperiali tedesca e russa e nella casa reale spagnola. Proprio per questa ragione l’emofilia divenne nell’immaginario collettivo la malattia dei Re».

LA “MALATTIA DI NATALE” E LA DISTINZIONE IN DUE TIPI DI EMOFILIA

«La distinzione dei due tipi di emofilia A e B, legate la prima all’assente o scarsa attività del fattore VIII della coagulazione e la seconda al fattore IX - prosegue Mannucci - fu merito di medici inglesi che, nel 1952 a seguito del caso di un paziente che si chiamava Stephen Christmas, identificarono quello che poi fu definito il fattore IX, precedentemente sconosciuto». Christmas nacque da una famiglia inglese a Londra nel 1947. Emigrato a Toronto con i genitori, all'età di due anni ebbe una diagnosi di emofilia presso l'Hospital for Sick Children. La famiglia ritornò in seguito a Londra per far visita ai parenti e, durante il viaggio, Stephen venne ricoverato. In quell’occasione, un campione del suo sangue fu inviato al centro emofilia di Oxford, dove Rosemary Biggs e R.G. McFarlane scoprirono che non era carente di fattore VIII, ma ciò di cui era deficitario era una proteina diversa, che ricevette, in suo onore, il nome di fattore di Christmas (e più tardi fattore IX).

GLI ANNI SESSANTA E LA SVOLTA 

«Se ancora nel 1960 l’aspettativa di vita degli emofilici non superava i trent’anni - racconta il professor Mannucci - nel corso del decennio e durante quello successivo le cose sono cambiate in maniera significativa. Negli anni Cinquanta e fino ai primi anni Sessanta gli emofiliaci potevano essere, infatti, curati solo con sangue o plasma fresco. Purtroppo, però, i fattori FVIII e FIX presenti in queste sostanze non erano sufficienti a fermare gravi emorragie. Quindi, coloro che erano affetti da emofilia grave morivano durante l’infanzia o nella prima giovinezza a causa di inarrestabili sanguinamenti. Un importante passo avanti fu fatto nel 1964, quando la scienziata americana Judith Graham Pool si accorse che scongelando il plasma precedentemente congelato si formava un sedimento, chiamato crioprecipitato, estremamente ricco di fattore VIII. Io ebbi la fortuna, in qualità di giovane medico, di essere a Oxford in quel periodo e di conoscere la Pool a cui chiesi di insegnarmi a preparare il crioprecipitato. Ricordo, con grande emozione, la data per me storica dell’8 giugno 1968, quando iniziai per la prima volta, appoggiandomi all’AVIS, a utilizzarlo presso il Policlinico di Milano. Era un trattamento salvavita che cambiava radicalmente l’esistenza dei malati, la loro aspettativa di vita e dava agli emofiliaci la possibilità di affrontare interventi chirurgici precedentemente inimmaginabili. Rammento un paziente sardo con una grave cardiopatia legata a un’infezione da denti guasti che non si potevano togliere e la sua immensa soddisfazione dopo l’intervento andato a buon fine».

LA RIVOLUZIONE DEI LIOFILIZZATI

Tuttavia, i crioprecipitati presentavano due limiti, spiega Mannucci: «Dipendevano dai donatori e potevano essere conservati e somministrati esclusivamente all’interno di strutture ospedaliere. Questo problema venne superato con l’impiego dei primi concentrati plasmatici di fattore VIII ottenuti mediante liofilizzazione, un processo fisico che, in particolari condizioni ambientali, consente di eliminare tutta l’acqua contenuta in una sostanza senza alterarne le qualità. I concentrati liofilizzati, in uso dagli anni Settanta, potevano essere conservati a lungo e in semplici frigoriferi da cucina, e inoltre erano molto più semplici da somministrare. Tutto ciò determinò una vera e propria rivoluzione nella cura dell’emofilia».

LO SPETTRO DELL’AIDS E DELL’EPATITE C: I FATTORI RICOMBINANTI

«In seguito alle devastanti conseguenze delle epidemie di sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) e epatite, legati all’utilizzo di emoderivati contaminati - prosegue Mannucci - si fece evidente la necessità di terapie nuove e più sicure per la popolazione emofiliaca. Lo sviluppo e la realizzazione delle tecniche di inattivazione virale dei concentrati di fattori derivati dal plasma, insieme all’adozione di nuovi metodi per individuare virus nelle donazioni di sangue hanno migliorato la sicurezza dei prodotti derivati dal plasma, al punto che da venticinque anni non si registrano episodi di trasmissione per via ematica di virus dell’epatite o HIV. Tuttavia, il progresso più importante è legato al rapido avanzamento della tecnologia del DNA (in seguito al clonaggio del gene del FVIII nel 1982 e del FIX nel 1984), che ha permesso la produzione industriale di FVIII ricombinante (e successivamente di FIX) alla fine degli anni Ottanta».

IL FUTURO?

«La terapia genica - risponde Mannucci - che prevede l'uso di un virus modificato (che non causa la malattia) per introdurre una copia del gene che codifica per il fattore di coagulazione che manca nei pazienti». Ci sono già studi che vanno in quella direzione, come quello del 17 marzo di quest’anno e realizzato da ricercatori di vari paesi (Brasile, Sud Africa, Taiwan, Regno Unito, USA e Belgio) e dall’azienda Californiana BioMarin. Pubblicato sulla prestigiosa rivista The New England Journal of Medicine riporta gli incoraggianti risultati di uno studio clinico di Fase III con una terapia genica ideata per ripristinare la funzione del Fattore VIII in 38 pazienti con emofilia A. In particolare, è stato osservato come la produzione di FVIII si mantenga per periodi prolungati, riducendo in maniera significativa il rischio di emorragie».



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