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Appello alla pietà

Mentre in Quebec è stato appena depenalizzato il reato di eutanasia, l'Italia cerca ancora un punto di incontro tra ragione, scienza ed etica

Appello alla pietà

Il Quebec pochi giorni or sono ha approvato a maggioranza del suo Parlamento la “Legge sulle cure di fine vita” in cui  è prevista anche la depenalizzazione  del reato di eutanasia. Ciò che mi ha felicemente stupito è stato il modo in cui l’Assemblea Nazionale è giunta al voto, dopo quattro anni di intenso dibattito e confronto in cui liberamente ciascun rappresentante del popolo ha espresso il proprio parere, spesso sofferto e  lacerato da dubbi. Prima di avviare il dibattito finale il Primo ministro Philippe Couillard ha rivolto all’Assemblea questo invito: “Vi chiedo di non trattare questo argomento con retorica e astrattamente, ma come un vero e proprio momento di riflessione per tutti.” E ogni membro dei diversi partiti è stato invitato a rispondere non a una linea ideologica ma alla propria coscienza. Molti deputati hanno confessato che il voto su questa legge è “stato il più difficile e meditato”. C’è stato chi non ha saputo trattenere le lacrime, sopraffatto dall’emozione.

Certamente quello dell’eutanasia è un problema lacerante per la sensibilità di molti, perché c’è una grande difficoltà ad accettare che si spenga la vita. Ma la fine della vita ci riguarda tutti, ed è un tema che non si può nascondere, ignorare o mistificare. Credo che dibattiti come quelli che ha saputo intavolare l’opinione pubblica del Quebec, e prima quella dell’Olanda, del Belgio e del Lussemburgo - i Paesi che hanno avuto la saggezza e il coraggio di darsi una legge sul fine vita -, alla ricerca di punti di incontro condivisibili e non di steccati ideologici, portino a una presa di coscienza. Io penso che il diritto di morire con dignità è, come tutti i diritti della persona, un diritto che fa capo unicamente al soggetto, nell’ambito di quel concetto che è il diritto di ogni uomo all’autodeterminazione, cioè di libertà.

Ho incontrato tante volte da medico il dramma straziante dell’eutanasia, e non me lo sono nascosto mai, con un profondo rispetto delle opinioni di tutti, anche quando non le condivido. Però ho visto la sofferenza di tanti malati, e le loro storie personali sono parte dei miei più vivi ricordi.

Per l’Italia, dove non siamo riusciti ad avere la leg­ge sul testamento biologico che riconosca il diritto all’autodeterminazione e che comprenda anche il diritto al rifiuto dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale, è un mondo che sembra lon­tano anni luce, ma verso cui bisogna avere il coraggio di camminare. Partendo da un’idea guida di cui sono profon­damente convinto: l’eutanasia non è la somministrazione della morte, ma è una delle cure di fine vita. Perciò, mi sento di sostenere una posizione che può sem­brare paradossale: io sono contrario all’eutanasia, se l’euta­nasia è un atto separato dalle cure. Deve esistere solo all’in­terno di un continuum costituito dalle cure somministrate ai malati terminali inguaribili, cure che vanno dal sollievo del dolore alla sedazione profonda continua. Anche la legge appena approvata nel Quebec si chiama “Legge sulle cure di fine vita” e come spesso ho detto, la maggior parte delle persone non ha paura del­la morte, perché è inevitabile e perché è il naturale termi­ne del nostro ciclo biologico, ma ha paura della sofferenza e del dolore che spesso precede il termine dell’esistenza.

Mi chiedono talvolta che cosa sia la morte per me, se ci penso spesso. Fin da bambino, cresciuto in una cascina alla periferia di Milano, in una famiglia patriarcale, la mestizia della morte si è presentata col volto di persone a me care: prima quella del nonno, poi di uno zio, e poi quella del papà, avevo sei anni. La ricordo come un fatto naturale, avveniva in casa, non tra le pareti straniere di un ospedale. Ricordo come la mamma, ma anche le vicine, preparavano amorevolmente la salma, la vestivano dell’abito della festa; ricordo la veglia trattenuta di sospiri dolenti, il rosario recitato tutti insieme. E per un mese, come segno di una mestizia serena, le donne vestivano a lutto e tutti portavamo la fascia nera al braccio, che oggi non si usa più, perché oggi la morte si tende a nasconderla, e il malato lo si lascia morire, solo, in ospedale.

Poi la morte l’ho vista in faccia, quando avevo 18 anni, c’era la guerra e una mina esplose sotto i miei piedi. Per mesi la morte si è accovacciata in attesa ai piedi del mio letto, in un ospedale dove attorno vedevo altri che morivano. Molte notti mi ha fatto compagnia. Da allora la morte non mi fa paura, non perché ne sia scampato ma perché, come dice Epicuro, quando ci siamo noi lei non c’è e quando c’è lei non ci siamo più noi, che non è una proposizione consolatoria, ma, a mio giudizio, è un “punto alto” di pensiero che ha precorso di molti secoli le teorie scientifiche che fanno coincidere l’essenza della vita con la coscienza del sé.

Poi la morte l’ho combattuta tutte le volte che si  è accanita contro un mio paziente, l’ho contrastata con le armi della scienza medica, e anche con la pietà, quando essa si annuncia nello strazio di un dolore indicibile, che annienta ogni parvenza di dignità umana.  Scegliere per chi amiamo l’eutanasia può essere un gesto di coraggioso amore, una dimostrazione che il nostro amore per la sua vita, ora sofferente, va oltre il nostro bisogno della sua presenza. L’eutanasia, prima di essere eutanasia, è comprensione assoluta, è quell’amore che sempre dovrebbe esserci tra un uomo che soffre e chi lo assiste.

Sì, forse è vero che si può dare un valore spirituale alla sofferenza, e perfino concepire una sorta di eroismo del dolore, ma come uomo e come medico io sento un solo dovere: quello di un appello alla pietà. E la pietà non è ideologica, è un sentimento che appartiene a tutti  e che fa parte dell’onore di dirsi uomo.

Credo sia utile una presa di coscienza, e sia necessario un dibattito leale e civile, il più possibile partecipato. E’ augurabile che la riflessione sul dolore e sulla morte, e sulle circostanze che accompagnano il morire e lo rendono troppo spesso intollerabile, esca dalla cerchia ristretta degli addetti ai lavori.

Nell’antica Grecia i problemi di vita e di morte si discutevano nell’agorà, la piazza. Anche noi dobbiamo trovare un’agorà in cui confrontarci. Alla luce della ragione, della scienza, dell’etica e di tutto ciò che abbiamo in comune. La mia speranza è che nel nome della pietà dell’uomo potremo trovare le ragioni che ci uniscono.

Umberto Veronesi



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