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Redazione
pubblicato il 26-05-2012

Come trovare la forza di reagire alle avversità



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C'è chi con i traumi diventa più resistente, anzichè più vulnerabile. Questa capacità si chiama resilienza. E'innata, ma si può imparare

Come trovare la forza di reagire alle avversità

C’è chi con i traumi diventa più resistente, anziché più vulnerabile. Questa capacità si chiama resilienza. E’ innata, ma si può imparare: è stata “insegnata” a bambini dopo una guerra o dopo il divorzio dei genitori. Chi ha gravi malattie fisiche risponde meglio alle cure

Sei resiliente? Molti non capiranno la domanda. Ma in psicologia si parla sempre più spesso di questa relativamente nuova facoltà: la resilienza. Si può  definirla come la capacità di mantenere o di recuperare il proprio equilibrio psichico quando esposti ad un serio evento avverso (come una grave malattia o un trauma ), trasformando tale evento in un’occasione di crescita personale.

Ma resilienza non è un concetto della fisica?

Lo domandiamo al professor Mario Maj, direttore del Dipartimento di psichiatria all’Università Sun di Napoli. «Sì, il termine resilienza  deriva dalla fisica, dove indica la capacità di una materia di assorbire gli urti senza rompersi. Oggi si ritiene che la resilienza sia in parte legata a caratteristiche della personalità dell’individuo già presenti prima del trauma (ottimismo, capacità di autoregolazione, autostima,  capacità di problem solving) ed in parte possa svilupparsi a seguito della “sfida” rappresentata dal trauma. La “traiettoria” delle persone che vanno incontro a più traumi significativi nella propria esistenza può essere caratterizzata, infatti, tanto da una vulnerabilità sempre maggiore quanto da una crescente resilienza».

Ci sono altri elementi che concorrono? 

«Altre variabili che sono la tendenza ad attribuire un senso alle cose che accadono, la spiritualità e la capacità di utilizzare le risorse esistenti».

Può spiegare meglio l’apporto della spiritualità?

«La spiritualità (intesa come la ricerca di un significato trascendente dell’esistenza, anche ma non necessariamente attraverso una religione) è stata ripetutamente associata a livelli più elevati di resilienza in persone con patologie mentali (depressione) e fisiche (tumori, gravi cardiopatie)».

Ma la resilienza si ha o si può imparare?

« Molti ritengono che la resilienza possa essere insegnata ed appresa (cioè, “costruita” attraverso interventi strutturati) e possa essere “misurata” in modo attendibile, consentendo così di valutare gli effetti degli interventi. Nei bambini che sono stati vittime di gravi traumi sono stati studiati con risultati positivi diversi interventi volti a promuovere la resilienza, sia individuali (ad orientamento cognitivo-comportamentale) che mirati alla relazione genitori-bambino. In questo ambito è stato messo a punto e sperimentato il New Beginnings Program per bambini tra i 9 e 12 anni i cui genitori hanno divorziato».

 Che “uso” si può fare di questa facoltà?

«La ricerca sulla resilienza ha avuto come oggetto non soltanto i bambini esposti ad abusi fisici o sessuali o ad altri traumi, ma anche le vittime di guerre o terrorismo e le persone affette da gravi malattie fisiche. In quest’ultimo ambito, la resilienza è stata studiata anche come fattore che può contribuire al successo dei trattamenti: ad esempio, in un gruppo di pazienti con cardiopatie coronariche, si è trovato che quelli con valori elevati di resilienza (misurata come una combinazione di ottimismo, percezione di controllo della situazione e autostima) avevano una risposta significativamente migliore ad un programma di riabilitazione di quelli con livelli bassi».

Serena Zoli


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