Parla la direttrice del carcere di San Vittore di Milano, Gloria Manzelli, e invita a riflettere sui motivi dell’ergastolo “ostativo” che concede certi i benefici che accorciano la pena solo se il condannato collabora con la giustizia
Ha un casco di ricci nerissimi ed è facile al sorriso. L’indole? Basterà dire che è romagnola. Lo stereotipo qui non mente. Parliamo della direttrice del carcere milanese di San Vittore, la prima donna su questa sedia, 45 anni, “alta come una cestista”, la descrisse Candido Cannavò, giornalista sportivo e volontario in piazza Filangieri “al numer do”, l’indirizzo fornito dalle vecchie canzoni milanesi della mala.
La dottoressa Gloria Manzelli interverrà alla Conferenza mondiale “Science for Peace” il 16 novembre (Università Bocconi, Milano) sul tema dell’ergastolo anche se il suo carcere non prevede ergastolani se non di passaggio, per periodi di cura. «E anche dopo anni non ci si abitua: quando ti transita sulla scrivania un fascicolo con la scritta “fine pena: mai” l’impatto emotivo è forte».
Dato il suo ruolo istituzionale, non ci si potrà aspettare da lei un intervento di radicale dissenso - l’ergastolo ha legittimità costituzionale - , ma, come ci anticipa, più di un invito a riflettere sì. Intanto spiega perché il suo non è un “carcere a vita”: è denominato “circondariale” in quanto destinato ad accogliere chi viene arrestato, quindi sono prevalenti i detenuti in attesa di giudizio, chi deve affrontare particolari cure. A sentenza emessa, le persone vengono spostate a scontare la pena, breve o perpetua, nelle “carceri di reclusione” come sono, per esempio, qui intorno, Opera e Bollate.
DUE PENE SENZA FINE - «Esistono due ergastoli», esordisce, suscitando sorpresa, Gloria Manzelli. «L’ergastolo diciamo “comune” che, nel rispetto del principio costituzionale, consente l’accesso ai benefici di legge come la semilibertà, la liberazione condizionale, i permessi, ecc., per cui la perpetuità viene a cadere al massimo dopo 26 anni di pena espiata».
E il “fine pena: mai” vero c’è? «Sì, sono circa un centinaio in Italia. E’ l’ergastolo cosiddetto “ostativo”, quello che resta operante in quanto c’è qualcosa che “osta” alla concessione dei benefici di legge. Riguarda reati gravissimi per cui, per concedere benefici, la legge richiede la piena collaborazione con la giustizia: che si racconti tutto e si facciano i nomi dei complici».
IL SILENZIO DI CHI NON SA - Già, lo Stato con la collaborazione, il cosiddetto “pentimento”, cerca la sicurezza sociale e la prevenzione di altri delitti. «Vero e giusto», riprende la dottoressa Manzelli, «ma attenzione: ci sono alcuni che non conoscono davvero ulteriori risvolti, per la posizione marginale che avevano nel gruppo criminale non hanno niente di più da dire. Poi ci sono quelli che temono per la loro famiglia, hanno paura della vendetta dei complici ancora liberi sui figli e parenti: non tacciono, dunque, per cattiva volontà. Occorre riflettere su questi casi, sull’esigibilità della collaborazione. Questa legge sull’ergastolo ostativo è nata in un momento di forte allarme sociale, dei tanti delitti e delle grandi stragi».
Dei delitti e delle pene. Aggirarsi in questi dintorni, anzi in questi gironi, non pare molto attraente a chi viene dall’esterno e, anche se non ci passa – gli uffici sono a parte – sente sbattere diverse porte di ferro e immagina un’umanità dolente. Non foss’altro che, a fronte dei 900 posti disponibili, qui sono ospitati – no, meglio proprio dire “reclusi”- 1.800 carcerati, come informa, amareggiata, la Manzelli.
Viene spontaneo chiederlo: ma cosa l’ha spinta a scegliere questa carriera? Sorride. «Ma io non l’ho scelta. Dopo la laura in giurisprudenza c’era questo concorso, l’ho fatto, come altri, e l’ho vinto. Poi…». Poi poteva cambiare. «No, perché il lavoro mi piaceva tantissimo. Molto vario e umanamente così ricco. Contatti col sociale esterno, con gli enti locali, con volontari, associazioni, perché da soli non possiamo dare ai detenuti la qualità e la quantità di cultura e stimoli che dobbiamo dare perché imparino a risocializzare…».
E i contatti con i reclusi? Lei li vede? «Li vedo, eccome! Non tutti, ovviamente, ma tanti. Nei colloqui, quando vado tra loro per ogni iniziativa, tante sono le occasioni, parecchi mi scrivono…».
6.500 ALL’ANNO - Certo che non può conoscerli tutti: «Qui, a San Vittore, entrano 6.500 arrestati all’anno e altrettanti ne scarceriamo o trasferiamo. Siamo un carcere di passaggio e di prima frontiera. Per questo abbiamo anche una popolazione più giovane che altrove, moltissimi di 22-30 anni. I nostri corsi scolastici e di mestieri, d’obbligo per legge e che curiamo molto, sono tanto più importanti per loro: una carta da “spendere” quando usciranno».
Riflette. «Ma investire sulla scuola e sui servizi sul territorio», dice, «sarebbe un buon deterrente al carcere, il problema va risolto lì, prima».
Sartoria (ironia della sorte, specializzata, oltre che in abiti di moda, in toghe per magistrati), legatoria, cucina, pasticceria, pelletteria, lezioni per parrucchiera, truccatrice, barman con corsi di 60 ore e non 600 data la sosta più breve dei detenuti in questa prigione milanese. La direttrice di S. Vittore snocciola con orgoglio le attività messe in piedi nel suo istituto, ma più di tutto ci tiene a dire come viene accolto l’arrestato condotto a questo grande portone chiuso nel centro della città e di fronte a un giardinetto con panchine.
DENTRO IL PORTONE - «La nostra struttura d’accoglienza è in funzione 24 ore al giorno, chi entra non è abbandonato. Si parla in modo cattivo del carcere, ma le disfunzioni originano spesso altrove. Dunque, appena entrato ciascuno viene visitato dal medico, poi incontra lo psicologo: garantiamo 18 ore al giorno di servizio psicologico. Il momento della carcerazione è delicatissimo, possono insorgere idee autolesive, pensi a chi ha fatto un delitto preso da un raptus, semmai in famiglia… Dopo due giorni – o prima su segnalazione dello psicologo – visita dello psichiatra, poi subentrano i volontari del servizio ascolto, i nostri educatori. Insomma c’è una vera rete che prende in carico ciascuna persona che entra qui con tutti i suoi drammi. E dobbiamo gestire gente dai 18 agli 80 anni».
Gloria Manzelli si interrompe e gioca con la matita sulla scrivania: «Le dicevo che il mio lavoro è umanamente molto ricco. Da qui vedo la vita con un altro focus, ogni giorno ho a che fare con una moltitudine di persone e con la loro miseria ma anche con la loro ricchezza umana. Poi, sa la gente che sta appena fuori le mura del carcere e pensa: ”A me non succederà mai”? E invece io so che è così labile il confine».
Serena Zoli