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Redazione
pubblicato il 15-11-2012

L'uomo del delitto è diverso dall'uomo della pena



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Molti condannati, afferma Sergio D'Elia, un ex terrorista e segretario di "Nessuno tocchi Caino" recuperano una nuova innocenza e questa va riconosciuta dalla giustizia

L'uomo del delitto è diverso dall'uomo della pena

Molti condannati, afferma Sergio D’Elia, un  ex terrorista e segretario di “Nessuno tocchi Caino”, recuperano una nuova “innocenza” e questa va riconosciuta dalla giustizia

Nato il 5 gennaio 1952, negli anni ‘70, Sergio D’Elia partecipa al movimento, prima della sinistra extraparlamentare, poi della lotta armata. Viene arrestato a Firenze nel maggio del 1979 e condannato per concorso morale in omicidio a venticinque anni di carcere, poi dimezzati con l’applicazione della legge sulla dissociazione dal terrorismo e altri bene?ci di legge. Nei primi anni ’80 anima il movimento della dissociazione politica dal terrorismo, sceglie la nonviolenza e, nel 1986, si iscrive al Partito Radicale. Nel gennaio 1987, grazie ad un permesso premio, partecipa al congresso del Partito Radicale, dove “consegna” simbolicamente al partito della nonviolenza la disciolta Prima Linea, l’organizzazione violenta di cui aveva fatto parte. Finisce di scontare la pena nel 1991 e, nel 2000, viene riabilitato con sentenza del Tribunale di Roma, riabilitazione sostenuta da decine di lettere di vittime dei suoi reati. Nel 1993, con la sua compagna Mariateresa Di Lascia, fonda Nessuno tocchi Caino, l’associazione radicale contro la pena di morte. Sul tema più generale della pena, in particolare sulla realtà del “carcere duro” in Italia, scrive il libro-inchiesta “Tortura Democratica”. Nell’aprile 2006 viene eletto a Montecitorio nelle liste della Rosa nel Pugno. Con Nessuno tocchi Caino e il Partito Radicale ottiene la approvazione, nel dicembre 2007, della Risoluzione per la Moratoria Universale delle esecuzioni capitali all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Interverrà alla Conferenza mondiale “Science for Peace”  nella sezione dedicata all’ergastolo ( venerdì 16, ore 16, Università Bocconi, Milano).  

La vostra fede nel ravvedimento in carcere è molto forte.

«Ma la nostra idea, per vie diverse, arriva alla stessa conclusione di Umberto Veronesi  quando afferma che neurologicamente il cervello cambia e dopo 20 anni quella persona non è più la stessa, proprio fisicamente. Se la giustizia vuole essere giusta e attuale, come  dovrebbe, deve cogliere questa diversità tra l’uomo della pena e l’uomo del delitto, riconoscere la “nuova innocenza”, tra virgolette, che quel detenuto si è conquistato in carcere. C’è chi è entrato che aveva a stento la quinta elementare ed è arrivato a laurearsi, si è “ricostruito” pur restando in cella, cambiando in quel percorso idee, volontà, sentire. Ecco, a quel punto la giustizia, il magistrato, dovrebbe intervenire proponendo il passaggio a pene alternative o ai benefici di legge. I tempi di recupero – quando c’è - sono diversissimi da persona a persona , ma l’Ordinamento penitenziario afferma proprio questo principio:  “individualizzazione del trattamento penitenziario”, che quindi non può  e non deve essere uguale per tutti».

Ma come pena minima, o diciamo giusta, voi che cosa proponete?

«La quantità della pena deve dipendere da un unico criterio: la pericolosità sociale. Quando una persona è davvero recuperata, la sua detenzione non ha più senso. Quindi non ha senso l’ergastolo e, ancor più, la pena di morte. Negli Stati Uniti prima di un’esecuzione capitale passano 20 o 30 anni di carcere: chi viene ucciso alla fine è una persona altra rispetto a quella arrestata. Si uccide un uomo, o una donna, nuovo, “innocente”».

Insieme con i radicali, con “Nessuno tocchi Caino” vi siete battuti per una moratoria delle esecuzioni capitali in tutto il mondo e avete ottenuto una risoluzione Onu. E’ ancora valida la sospensione delle condanne a morte?

«Sì, la risoluzione Onu è stata rinnovata nel 2008, nel 2010 e lo sarà di nuovo il prossimo dicembre. La nostra aspirazione è arrivare all’abolizione della pena di morte ovunque».

Voi definite l’ergastolo  come una morte.

«C’è chi dice che da noi, in Italia, in realtà l’ergastolo non esiste. Invece ci sono i carcerati con ergastolo ‘ostativo’ che anche dopo 26 anni, quando si potrebbe ottenere la libertà condizionale, non hanno speranza di uscire. E sono tanti».

Quello che “osta” ai benefici di legge è la non collaborazione completa con la giustizia. Il ravvedimento, ma con denuncia dei complici e di quanto si sa sull’organizzazione criminale d’appartenenza.

«Io dubiterei sempre di una collaborazione resa sotto ricatto. Non è genuina, chissà se è veritiera, comunque è indotta da uno stato di estorsione che si qualifica come una tortura. Le torture non sono solo fisiche. Anche mettere qualcuno in stato di costrizione perché parli incorre nella definizione di tortura che danno la Convenzione internazionale e la Convenzione europea contro la tortura».

In effetti, sulla realtà del carcere duro in Italia lei ha scritto un libro-inchiesta intitolato per l’appunto Tortura democratica.

«Se la pena detentiva è vissuta di fatto bestialmente come da noi, è obiettiva tortura. Ciò nonostante anche in queste condizioni disumane c’è gente che ha deciso di cambiare comportamenti, idee, aspirazioni».

Serena Zoli


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