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I nostri ricercatori
Chiara Segré
pubblicato il 08-02-2016

Come la flora intestinale condiziona l'esito di un trapianto



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Il progetto di ricerca di Daniele Zama punta a scoprire come ridurre i casi di rigetto regolando la composizione del microbiota, oggi al centro di diversi studi mirati a individuare l'effetto sul sistema immunitario

Come la flora intestinale condiziona l'esito di un trapianto

Il trapianto di cellule staminali emopoietiche da donatore è un trattamento potenzialmente curativo per molte patologie ematologiche, come i tumori del sangue o disordini ematologici ereditari, e rappresenta un’importante opzione terapeutica anche per pazienti pediatrici. Tuttavia è un intervento che può andare incontro a complicanze:  le principali sono rappresentate dalle infezioni e dalla malattia acuta da trapianto contro l’ospite. Si tratta di una condizione che emerge a seguito di una cattiva regolazione del sistema immunitario che reagisce contro le cellule provenienti dall’esterno. Molti oncologi e ricercatori sono sempre al lavoro per capire come ridurre l’insorgenza e la gravità della malattia acuta dopo il trapianto, che spesso ne limita il successo. Tra loro c’è Daniele Zama (nella foto), sostenuto nel 2016 da Fondazione Veronesi nell’ambito del progetto Gold for kids, pediatra e ricercatore  nell’unità  di oncoematologia pediatrica e trapianto  dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Orsola Malpighi a Bologna, dove sta sviluppando un approccio innovativo per la prevenzione dei rigetti dopo trapianto.

Daniele, ci spieghi meglio di cosa si occupa la tua ricerca?

«La mia ipotesi di lavoro parte dall’osservazione, ormai comprovata da centinaia di studi, che i microrganismi che vivono nel tratto gastrointestinale influenzano lo sviluppo e il funzionamento del sistema immunitario. Lo scopo del progetto è, quindi, valutare se variazioni o modificazioni nel microbiota intestinale di bambini sottoposti a trapianto possano influenzare la malattia acuta da trapianto. Saranno pertanto prelevati campioni fecali da prima del trapianto fino a cento giorni dopo, per coprire tutto il periodo d’insorgenza della malattia. La composizione del microbiota sarà valutata mediante sequenziamento di nuova generazione e mediante un’analisi funzionale dei geni e delle variazioni nel metabolismo».

Quali prospettive apre, anche a lungo termine, per la conoscenza biomedica e le possibili applicazioni alla salute umana?

«Per quanto riguarda la conoscenza biomedica, contribuire a comprendere la complessa relazione tra la flora batterica intestinale e il sistema immunitario. Il contesto in cui lavoriamo è particolarmente stimolante, perché dopo il trapianto di cellule staminali il sistema immunitario va incontro ad una fase di ricostruzione. È in questo momento, unico e irripetibile, che la flora batterica intestinale può svolgere un ruolo chiave nella rieducazione del sistema immunitario favorendo o meno patologie infiammatorie. L’obiettivo finale è quello di regolare la flora batterica intestinale per favorire l’azione verso il sistema immunitario, riducendo così il rischio e la gravità di una malattia acuta contro l’ospite in seguito a trapianto».

La tua giornata si divide tra l’attività di medico e quella di ricercatore.

«Il mio lavoro prevede un’attività clinica nell’unità trapianto di cellule staminali emopoietiche. È qui che incontro i pazienti, da cui preleviamo i campioni fecali per le successive analisi in laboratorio. Amo entrambi questi aspetti, entrambi fondamentali, del mio lavoro».

Perché hai scelto la strada della ricerca, accanto alla pratica clinica?

«Mi ha spinto la mia grande curiosità, quel fermento che ti spinge a capire tutto ciò che ci circonda. Per questo mia moglie mi chiama “Dani-pedia”». 

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Il momento di analisi dei risultati quando la loro complessità trova armonia e comprendi l’esito della ricerca. Per un breve attimo ma estremamente intenso, vivi la sensazione di salire sulle spalle dei giganti e di guardare oltre il limite del conosciuto».

Se ti dico scienza e ricerca, cosa ti viene in mente?

«Sidney Farber, il padre della chemioterapia, colui che ha scoperto il primo antiblastico. Per chi si occupa di tumori infantili è un maestro che ha dato inizio a quel periodo definito the age of miracle, in cui la terapia delle leucemia acuta linfoblastica è stata rivoluzionata e ha compiuto enormi progressi».

Qual è nella tua opinione il filone di ricerca biomedica più promettente?

«La diagnosi precoce: il sequenziamento massivo sta rivoluzionando la nostra capacità di comprensione. Il difficile è ora capire come portare questa mole di conoscenza al letto del paziente».

Ci sono alcune persone che manifestano un chiaro sentimento antiscientifico; secondo te come si può porvi rimedio?

«Il primo passo dovrebbe essere spiegare con pazienza i successi della medicina e della ricerca, perché i miglioramenti della salute sono tangibili e misurabili  mentre spesso la memoria, soprattutto quella collettiva, è troppo breve. Inoltre non andrebbe mai dimenticato che l’interlocutore non è un nemico ma una persona che spesso ha paura che profitto e interessi, che in molti casi ci sono, abbiano guidato le scelte di politica sanitaria». 

Qual è il tuo senso profondo che dà un significato alle tue giornate lavorative?

«La cura del malato prima ancora che della malattia. Nel mio caso personale l’interazione con bambini aggiunge un ulteriore elemento di empatia nei confronti del loro dolore e delle loro famiglie».


@ChiaraSegre


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Chiara Segré
Chiara Segré

Chiara Segré è biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, con un master in giornalismo e comunicazione della scienza. Ha lavorato otto anni nella ricerca sul cancro e dal 2010 si occupa di divulgazione scientifica. Attualmente è Responsabile della Supervisione Scientifica della Fondazione Umberto Veronesi, oltre che scrittrice di libri per bambini e ragazzi.


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