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L'esperto risponde
Redazione
pubblicato il 27-02-2014

Troppe radiazioni per i pazienti cardiopatici?



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Come capire se e quando le radiazioni degli esami diagnostici sono dannose?

Troppe radiazioni per i pazienti cardiopatici?

Ho letto che ora si raccomanda ai cardiologi di non esagerare con gli esami che comportano radiazioni per il paziente. Ho 54 anni e soffro di cardiopatia ischemica, ho già eseguito due scintigrafie. Mi chiedo quanto serio sia il rischio.
Nic, Vigevano

Risponde Daniele Andreini, responsabile dell’Unità Operativa di TAC cardiovascolare del Centro Cardiologico Monzino di Milano

La raccomandazione a cui fa riferimento il lettore è un position document presentato dalla Società Europea di Cardiologia (qui il testo). Il documento ricorda che il 40% dell’esposizione a radiazioni di un paziente è legato alla cardiologia e invita medici e pazienti a prestare la massima attenzione possibile. Il messaggio è corretto e gli specialisti ne sono consapevoli. Altri studi hanno affrontato l’argomento, mettendo in guardia medici e pazienti contro il rischio di sottostimare l’impatto delle radiazioni in cardiologia. Un’esposizione a dosi eccessive di radiazioni ionizzanti, infatti, nel tempo può portare a un rischio aumentato di varie malattie, in particolare i tumori.

Compito dello specialista è appunto quello di soppesare costi e benefici senza mai perdere di vista lo scopo primario: il benessere del paziente. Le radiazioni ionizzanti sono utilizzate in alcune delle procedure più importanti oggi per la diagnosi e la cura delle malattie cardiovascolari. Servono per “vedere” meglio il cuore e i vasi, a volte per guidare le mani del cardiologo o del cardiochirurgo negli interventi. Implicano l’esposizione a radiazioni ionizzanti esami di medicina nucleare, come PET, SPECT e scintigrafia e la TC cardiaca. Poi indagini invasive come la coronarografia e le procedure di elettrofisiologia, usate per curare le aritmie.

E’ bene anche ricordare che oggi in questo settore le cose cambiano molto in fretta e le procedure comportano dosi di radiazioni molto più basse anche solo di rispetto a pochi anni fa. Persino il già citato documento della Società Europea di Cardiologia riporta in alcuni casi dosi ormai appartenenti al passato.  Ad esempio, 15 mSv (milliSievert, l’unita di misura delladose di radiazioni radiazioni erogata al paziente) per una TC del cuore sono oggi un dato superato, i macchinari di ultima generazione di tutte le principali ditte costruttrici, ormai molto diffusi, lavorano tranquillamente sotto i 3 mSv, spesso a 1 o 1,5 mSv.

Ricapitolando: che fare per ottimizzare il rapporto fra rischi e benefici?

Primo: utilizzare adeguatamente la tecnologia attuale, che permette un risparmio del 90% delle radiazioni rispetto alle apparecchiature di alcuni anni fa.

Secondo: selezionare in modo appropriato i pazienti e le procedure. Fra gli esami diagnostici vanno privilegiati quelli che non utilizzano radiazioni, salvo nei casi in cui siano palesemente superiori. E’ il caso ad esempio della TAC cardiaca, che è l’esame più accurato per valutare le lesioni coronariche. Se c’è un sospetto di malattia coronarica, allora, meglio arrivare a una diagnosi adeguata con procedure non invasive (con TAC, medicina nucleare, ecocardio da stress o risonanza magnetica) e riservare alla terapia dei casi accertati la coronarografia, esame invasivo che implica ricovero, radiazioni, costi e un rischio, sia pur minimo, per il paziente. Nel 40% dei casi in Italia la coronarografia viene invece eseguita a scopo esclusivamente diagnostico.

Per le malattie carotidee, ad esempio, già avviene così: esami come l’ecocolorDoppler o l’angio TC identificano i pazienti che necessitano di intervento e si ricorre a un’angiografia carotidea solo quando è necessario applicare uno stent per riparare il danno. Un altro esempio particolarmente delicato è quello dell’intervento di ablazione di fibrillazione atriale, che comporta per il paziente un’esposizione a dosi significative di radiazioni, anche 16,6 mSv come riportato nel documento della Società Europea.

E ci sono alcuni pazienti che ripetono anche 3 o 4 volte l’intervento. In questi casi la parola d’ordine è limitare al massimo la radioesposizione (ed anche in questo campo l’evoluzione tecnologica e l’impegno degli operatori elettrofisiologi sta portando ad un netto abbattimento della radio esposizione, come avviene ad esempio al Centro Cardiologico), ma mai a discapito dell’efficacia della procedura, che – non va dimenticato – serve ad allontanare un rischio elevato e imminente.

Terzo: informare correttamente il paziente e documentare le procedure effettuate. Un suggerimento importante dato nel documento della Società Europea di Cardiologia è quello di riportare per iscritto, oltre alle procedure effettuate, diagnostiche o terapeutiche che siano, anche la dose stimata di radiazioni ricevuta dal paziente. E’ un provvedimento che sarebbe utile per i pazienti e per i medici che li seguono. A maggior ragione se si parla di giovani cardiopatici (che oggi per fortuna hanno di fronte a loro una lunga prospettiva di vita e probabilmente dovranno ripetere più volte esami diagnostici e interventi) i quali, ,in particolare se di sesso femminile, sono più suscettibili agli effetti delle radiazioni ionizzanti.

Va da sè che è del tutto da evitare l’autoprescrizione di esami, in Italia ancora marginale, ma in lieve ascesa negli ultimi anni.


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