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Neuroscienze
Caterina Fazion
pubblicato il 08-03-2023

L'esercito (in crescita) degli Hikikomori in Italia



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In Italia gli Hikikomori sono oltre 50.000. Che cosa spinge questi ragazzi a ritirarsi dalla società? E come aiutarli? I dati del CNR e il parere degli esperti

L'esercito (in crescita) degli Hikikomori in Italia

Degli Hikikomori abbiamo già parlato qualche mese fa: sono giovani, spesso giovanissimi, che smettono di uscire di casa, di frequentare scuola e amici. Decidono di chiudersi nelle proprie stanze, limitando al minimo anche i rapporti con i propri familiari e mantenendo i contatti col mondo prevalentemente attraverso il web.

Secondo un recente studio condotto dal CNR, insieme al Gruppo Abele, si stima che in Italia gli Hikikomori potrebbero essere circa 50.000. Chi sono i ragazzi che decidono di isolarsi e perché decidono di farlo? Quali strategie possiamo attuare per aiutarli? Ne discutiamo insieme a Sabrina Molinaro, Dirigente di ricerca del Consiglio Nazionale delle Ricerche - Istituto Fisiologia clinica del Cnr, e a Leopoldo Grosso psicologo-psicoterapeuta e presidente onorario gruppo Abele.

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LA RICERCA

L’esigenza di capire l’estensione del fenomeno ha spinto il Gruppo Abele a raccogliere dati attendibili per definire una prima stima quantitativa dell’isolamento volontario nella popolazione adolescente. Per farlo ha deciso di appoggiarsi allo studio ESPAD®Italia (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs), condotto annualmente dal Cnr-Ifc rispetto al consumo di sostanze psicoattive tra i giovani, coinvolgendo un campione di oltre 12.000 studenti rappresentativo della popolazione studentesca italiana fra i 15 e i 19 anni.

 

COSA È EMERSO?

I ragazzi sono stati intervistati attraverso un apposito set di domande volte a intercettare sia i comportamenti sia le cause percepite. I risultati, infatti, si basano sull’autovalutazione dei partecipanti stessi. Cosa è emerso?

«Il 2,1% del campione attribuisce a sé stesso la definizione di Hikikomori. Proiettando il dato sulla popolazione studentesca 15-19enne a livello nazionale – afferma la dottoressa Sabrina Molinaro –, si può quindi stimare che circa 54.000 studenti italiani di scuola superiore si identifichino in una situazione di ritiro sociale. Questo dato appare confermato dalle risposte sui periodi di ritiro effettivo: il 18,7% degli intervistati afferma, infatti, di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown, e di questi l’8,2% non è uscito per un tempo da 1 a 6 mesi e oltre. In quest’area si collocano sia le situazioni più gravi (oltre 6 mesi di chiusura), sia quelle a maggiore rischio (da 3 a 6 mesi). Le proiezioni ci parlano di circa l’1,7% degli studenti totali (44.000 ragazzi a livello nazionale) che si possono definire Hikikomori, mentre il 2,6% (67.000 giovani) sarebbero a rischio grave di diventarlo».

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I SOGGETTI PIÙ A RISCHIO

L’età che si rivela maggiormente a rischio per la scelta di ritiro sociale è quella che va dai 15 ai 17 anni, con un’incubazione delle cause del comportamento di auto-reclusione già nel periodo della scuola media. Spesso si tratta di ragazzi che hanno già mostrato fragilità, ad esempio avendo fatto uso di psicofarmaci con e senza prescrizione medica.

Le differenze di genere si rivelano nella percezione del ritiro: i maschi sono la maggioranza fra i ritirati effettivi, ma le femmine si attribuiscono più facilmente la definizione di Hikikomori. Per quanto riguarda l’utilizzo del tempo ci sono differenze importanti, le ragazze sono più propense al sonno, alla lettura e alla tv, mentre i ragazzi al gaming online.

 

COLPA DEL COVID?

Durante il lockdown siamo stati tutti costretti al ritiro sociale per cui, superata la pandemia, sarebbe stato plausibile aspettarsi una diminuzione del fenomeno, ma così non è stato in quanto per molti ragazzi il ritiro forzato ha paradossalmente incentivato il ritiro volontario. Lo studio è iniziato nel 2021, ma il dato,in base ai primi rilevamenti del 2022 , sembra non solo mantenersi ma aumentare leggermente con il 2,2% dei ragazzi che si definiscono hikikomori. Non sembra affatto un fenomeno destinato a passare e le cause sono da ricercare al di là del covid.

«Fra le cause dell’isolamento – spiega Leopoldo Grosso –, assume un peso determinante il senso di inadeguatezza rispetto ai compagni, caratterizzata da frustrazione e auto-svalutazione. Spesso i ragazzi si sentono immeritevoli e non all’altezza per via delle sembianze del loro corpo, per il proprio carattere, per la propria timidezza, per il proprio comportamento o per il loro modo di vestirsi. A questi elementi attribuiscono la causa della mancata accettazione che, quando diventa troppo insopportabile, culmina con il ritiro sociale».

L’aver subito episodi di bullismo, contrariamente a quanto si possa ritenere, non è fra le ragioni più frequenti e determinanti della scelta.

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UN FENOMENO IN CRESCITA

Inizialmente attribuita solamente al Giappone, paese culturalmente distante da noi, la problematica degli Hikikomori, quando si è affacciata in Occidente era considerata una questione di pertinenza psico-patologica. Con l’aumento dei numeri anche in Italia ci stiamo finalmente accorgendo di un fenomeno emergente con caratteristiche rilevanti, che non può più essere ignorato.

«Attualmente il fenomeno è sempre più visibile – afferma Leopoldo Grosso – ,ma non c'è una consapevolezza istituzionale nazionale per una presa in carico della problematica sia a livello preventivo sia di aiuto. Lo sforzo della ricerca è volto proprio a dare una spinta in questo senso».

 

COSA È CAMBIATO RISPETTO AL PASSATO?

Per quale motivo fino a una ventina di anni fa era un’eccezione sentire parlare di giovani ritirati socialmente e ora invece esistono numeri così elevati? Cosa è cambiato?

«Il disagio giovanile – spiega Grosso –fino a trenta anni fa prendeva altre strade, come quella della tossicodipendenza da eroina per via endovenosa, e soprattutto non si doveva fare i conti con le richieste, molto esigenti, della “società dell'apparenza e del narcisismo” come invece accade col nuovo millennio. Oggi i valori estetici e prestazionali diventano dirimenti per definire il valore di un giovane da cui discende il suo livello di accettazione sociale. I ragazzi hanno assorbito totalmente questo tipo di cultura, ne hanno interiorizzato i criteri e i valori, e sono molto sensibili a riguardo: quando, dopo aver strenuamente combattuto per la loro accettazione, non ce la fanno più a reggere un confronto ai loro occhi sempre perdente, si arrendono e si ritirano».

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COME INTERVENIRE?

Una volta rilevato questo fenomeno, cosa possiamo fare per aiutare questi ragazzi?

«Innanzitutto bisogna prendere atto della situazione – riflette Sabrina Molinaro –, senza ignorarla. Dal report emerge che più di un intervistato su 4, fra coloro che si definiscono ritirati, dichiara che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande. Il dato è simile quando si parla degli insegnanti. Inoltre, dovremmo tornare a un’educazione e a un rapporto con i pari non eterodeterminato ovvero controllato sempre da altri. Al giorno d’oggi i ragazzi si riuniscono e si interfacciano tra di loro solo durante attività organizzate dalla scuola o dalle società sportive. L’unico “luogo” in cui sono padroni del proprio tempo e possono rapportarsi con i coetanei da soli senza controlli è il web. Per questo motivo sarebbe interessante capire se il rischio hikikomori è inferiore nelle aree rurali dove la libertà dei ragazzi e la possibilità di stare in mezzo ai pari senza controlli è sicuramente maggiore».

 

SERVE UNA CERTIFICAZIONE?

Vista la rilevanza dei dati emersi dallo studio, sarebbe importante che ne derivassero decisioni operative utili alla gestione e alla tutela del fenomeno che andrebbe portato all’attenzione nazionale e ministeriale.

«Sarebbe importante seguire l’esempio di alcune scuole che hanno attrezzato stanze appartate per consentire ai ragazzi in difficoltà di non avere il confronto diretto con i compagni – spiega Leopoldo Grosso – o che permettono agli insegnanti di recarsi a casa o di proseguire con la didattica online. In questo modo salta il criterio rigido della frequenza scolastica come prerequisito per la valutazione finale. L’allentamento della frequenza, calcolandola con altre modalità che non si identifichino solamente con la presenza in aula, diventa di fondamentale importanza per interviene precocemente quando il ritiro sociale è solo una tentazione o all'esordio. Quando non si tratta di una scelta definitiva è ancora possibile intervenire, se ci sono gli strumenti adeguati. Tuttavia, per evitare che il rifiuto di recarsi a scuola sia scambiato per abbandono scolastico, sarebbe importante che venissero rilasciate dalle ASL certificazioni che attestino il ritiro sociale esimendo dalla frequenza scolastica richiesta e consentendo di individualizzare il percorso, con possibilità di studiare a casa. Alcune asl, tramite i servizi di neuoprsichiatria o psicologia sono già attive in tal senso, ma si tratta di una situazione estremamente disomogenea sul territorio nazionale».

 

IL PROGETTO NOVE ¾

Di fronte ai dati emersi, il Gruppo Abele intende stimolare una riflessione approfondita, anche attraverso un seminario per operatori, educatori e insegnanti, ma nel frattempo prosegue con un intervento educativo sperimentale, iniziato nel 2020.

«Il progetto Nove ¾ – conclude Grosso –, vincitore di un premio dell’Accademia dei Lincei che ha finanziato anche lo studio in collaborazione con il CNR, si è fatto finora carico di circa 50, fra ragazzi e ragazze, le cui famiglie non trovavano risposta alla chiusura e all’isolamento dei loro figli. Per loro si sono attivate periodiche visite a domicilio da parte di giovani operatori, nel tentativo di consolidare una relazione di cui possono fidarsi per fare da ponte alla possibilità di frequentare un centro laboratoriale diurno dedicato, dove si svolgono attività individuali o in piccoli gruppi con “maestri di mestiere” a partire dagli interessi espressi dai ragazzi. Il centro è un luogo protetto dove partecipano solo ritirati sociali e la diffidenza rispetto alla frequentazione dell'ambiente esterno che hanno deciso di abbandonare, è sicuramente minore. Affinché i genitori riescano ad acquisire maggiori strumenti per gestire le difficoltà dei figli, è offerto loro, in parallelo, un sostegno psicologico. Il progetto Nove ¾ rappresenta un primo approccio, in rete con il sistema scolastico e i servizi socio-sanitari, per tentare di accompagnare i ragazzi, dopo la loro decisione di isolarsi e abbandonare la scuola, a riprendere nuovamente contatti, gradualmente, con il mondo circostante».

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Caterina Fazion
Caterina Fazion

Giornalista pubblicista, laureata in Biologia con specializzazione in Nutrizione Umana. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e il Master in Giornalismo al Corriere della Sera. Scrive di medicina e salute, specialmente in ambito materno-infantile


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