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Neuroscienze
Paola Scaccabarozzi
pubblicato il 17-07-2023

L'iconografia dell'obesità: quando le immagini fanno male



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Come si rappresenta l’obesità? Con quali parole e con quali immagini? Ne parliamo con un esperto

L'iconografia dell'obesità: quando le immagini fanno male

L’obesità chiede rispetto, così, come qualunque altra malattia del corpo e della mente e come qualsiasi condizione umana che pare esuli dalla cosiddetta “normalità” (termine improprio che non definisce per nulla la complessità di quello che siamo). Chi ha a che fare con il sovrappeso o con l’obesità, con tutte le sfumature del caso, non deve sentirsi oggetto di stigma. E chi ne parla o ne scrive può giocare un ruolo importante. 

LE PAROLE SONO IMPORTANTI

Le parole sono importanti. Non è una battuta di Morettiana memoria di un Palombella Rossa ormai datato (1989), ma un’affermazione che sta sempre alla base della comunicazione che è fatta di parole e, spesso, di immagini. Lo è per chi scrive. Lo è, ancora di più, per chi divulga la scienza e si occupa di un tema delicatissimo: la salute. Lo è per il medico e gli operatori sanitari tutti. Lo è per i familiari di un paziente e per il malato stesso perché non è affatto un dettaglio il modo con cui ci si auto-definisce. «Si tende infatti spesso a semplificare» spiega Gianluca Castelnuovo, professore Ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università Cattolica di Milano e Responsabile del Servizio di Psicologia Clinica all’IRCCS Istituto Auxologico Italiano-Piancavallo, uno dei principali centri europei per la cura dell’obesità. «Si tende a far coincidere una caratteristica, apparentemente prevalente e talvolta transitoria, di un essere umano con la sua totalità. Un aggettivo, spesso negativo, diviene così la sintesi imprecisa e totalizzante di quello che la persona in questione parrebbe essere. E l’imperversare di etichette che banalizzano, incasellano e, soprattutto, acuiscono sofferenze. E un marchio a fuoco, è un tatuaggio indelebile, pressoché impossibile da eliminare. Sono parole che danno l’idea di una condizione statica, destinata a imperitura immutabilità, anche qualora quella caratteristica appartenga al passato. Un “ex tossicodipendente” resterà così sempre uno che ha avuto a che fare con la droga, anche a distanza di anni e un obeso, un… “ciccione” a vita».

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A COMINCIARE DALLA DIAGNOSI…

«La modalità con cui vengono poste dal medico le domande circa la propria storia clinica -prosegue Castelnuovo - sono fondamentali per un approccio corretto e una comunicazione empatica. Domandare al paziente da quanto ha a che fare con la condizione di obesità è molto diverso dal chiedere da quanto tempo è obeso». Non si tratta, infatti, di quisquilie lessicali. «Significa invece - chiarisce lo psicologo - offrire al paziente la percezione di un miglioramento possibile e di una situazione in itinere che non si identifica con la sua essenza. Vuol dire, inoltre, comprendere e comunicare la complessità di ciò che l’obesità è: una condizione appunto, varia e diversificata, che contempla anche componenti genetiche o eventuali sindromi e patologie sottostanti. Significa, in ultima istanza, non colpevolizzare il paziente, ma metterlo nelle condizioni migliori possibili per prendersi cura di sé e farsi aiutare dall’equipe di specialisti (medico endocrinologo, dietista, psicologo, ortopedico…) che lo seguirà nel suo percorso».

LA FORZA DELLE IMMAGINI

Poi ci sono le immagini, potentissime e in grado, insieme alle parole, di destabilizzare ancora di più i pazienti, già fortemente provati dalla propria condizione. L’iconografia dell’obesità è spesso deleteria. Feroci sono le fotografie di pance abnormi in primo piano sulle riviste. Terrificanti sono le immagini di coloro che, tracimanti di grasso, sprofondano in un divano davanti al televisore. Crudeli le foto di uomini e donne voraci intenti ad abbuffarsi di patatine, torte di panna, gelati e panini ripieni all’inverosimile.

«Si tratta insomma - spiega Castelnuovo - di un concentrato di fotogrammi che ritraggono, senza pietà, un attimo specifico della vita di ogni paziente, con la pretesa di farlo coincidere con la complessità della loro esistenza. L’accento viene volutamente posto sulle caratteristiche negative connesse a ciò che, nell’immaginario collettivo, l’obesità rappresenta: voracità, pigrizia, impulsività, mancanza di autocontrollo. Si crea così una sorta di “effetto alone”. E un fenomeno noto in ambito psicologico, caratterizzato da una distorsione cognitiva in grado di estendere una sola caratteristica di una persona alla totalità di quello specifico individuo. Estrapolare un difetto per renderlo identificativo di una persona significa creare e diffondere uno stigma. Vuol dire puntare il dito».

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DUNQUE QUALI RAPPRESENTAZIONI SCEGLIERE?

«Momenti di vita quotidiana, persone che camminano, vanno al lavoro, ragazzi che studiano - spiega Castelnuovo - immagini che rappresentino situazioni comuni, evitando l’utilizzo di fotografie stereotipate e giudicanti. La rappresentazione dell’abbuffata non è di aiuto a nessuno. E solamente penalizzante per chi si identifica con quella specifica situazione, spesso accompagnata da grande sofferenza e senso di sconfitta. Molto più utile puntare, anche dal punto di vista iconografico, sulla ricchezza dell’individuo attraverso foto che mettano in evidenza interessi (famiglia, hobbies…) e atti virtuosi. La persona in sovrappeso che svolge attività fisica può costituire un esempio da seguire». E poi perché mai coloro che sono affetti da obesità devono essere necessariamente pigri e svogliati? «Un’altra questione, dal punto di vista mediatico - conclude Castelnuovo - riguarda anche la connessione tra immagini, testo di un articolo e titoli adeguati. Capita infatti, e non di rado, che a una comunicazione corretta corrispondano, non solo fotografie poco appropriate, ma anche “titoloni” poco consoni al contesto».

Paola Scaccabarozzi
Paola Scaccabarozzi

Giornalista professionista. Laureata in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, con specializzazione all'Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e giornalismo di inchiesta accreditati dall'Ordine Giornalisti della Lombardia. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere.   


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