Uno studio canadese mostra che l’ingresso in RSA può accelerare il declino. Anche in Italia, la qualità dell’assistenza può fare la differenza

Per un anziano su cinque, entrare in una RSA significa perdere in poco tempo la capacità di decidere per sé. Per uno su tre, affrontare l’incontinenza. Per molti, vivere una condizione percepita come peggiore della morte. A descrivere questo scenario è un ampio studio canadese pubblicato su JAMA Network Open, che ha seguito oltre 120 mila persone sopra i 65 anni dopo il loro ingresso in una struttura di assistenza a lungo termine (Long-Term Care, LTC – l’equivalente delle nostre Residenze Sanitarie Assistenziali, RSA). I numeri parlano chiaro: il trasferimento in RSA, pensato per offrire supporto e protezione, coincide troppo spesso con un’accelerazione del declino fisico e cognitivo.
I RISULTATI DELLO STUDIO
Sono state coinvolte nello studio 120.238 persone di almeno 65 anni, e i ricercatori hanno monitorato nel tempo coloro che, al momento dell’ingresso, non presentavano deficit gravi. I risultati indicano che il 20,0% ha perso la capacità decisionale, il 7,7% ha perso la capacità di comunicare, il 13,4% è diventato totalmente dipendente, e il 32,8% ha sviluppato incontinenza. In media, i residenti sopravvivevano 45 giorni dall’inizio della totale dipendenza e circa un anno dall’insorgenza delle disabilità più gravi, come l’incapacità di comunicare, l’incontinenza e la perdita dell’autonomia decisionale. Gli autori dello studio sottolineano che questi esiti, purtroppo comuni, sollevano interrogativi rilevanti sulle preferenze individuali in merito alla qualità della vita.
In precedenti interviste condotte con alcuni residenti delle LTC, era emerso che prospettive come la perdita di autonomia, la dipendenza completa o l’isolamento venivano percepite da loro come più angoscianti della morte. Per questo, gli autori ribadiscono l’importanza di avviare precocemente discussioni approfondite con i pazienti e le famiglie riguardo agli obiettivi di cura e alle direttive anticipate, come le decisioni di non rianimazione o di non ospedalizzazione. Ma i dati fanno anche riflettere sull’importanza di prevenire il declino cognitivo e funzionale sia dentro, sia fuori dalle strutture.
UN'ASSISTENZA COSTANTE
Non è semplice reperire dati sulla situazione delle RSA in Italia a causa della frammentazione regionale del Servizio Sanitario, come nota Giacomo Tondo, neurologo del Centro Disturbi Cognitivi e Demenze dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Maggiore della Carità di Novara. L’esperto sottolinea comunque che c’è un rapporto bidirezionale tra deficit cognitivo e ingresso nelle RSA. «Se c’è il supporto dei familiari, le persone anziane entrano in una RSA nel momento in cui la gestione domiciliare diventa difficile se non impossibile. L'inserimento in RSA diventa necessario in particolare quando insorgono disturbi comportamentali e neuropsichiatrici che comportano agitazione e aggressività e mettono a rischio la sicurezza del paziente. O quando la persona anziana perde la capacità di giudizio e l’orientamento, per cui rischia di allontanarsi e perdersi se non viene tenuto sotto controllo costantemente».
I FATTORI DI RISCHIO
Diversi studi hanno dimostrato che dopo l’ingresso nelle RSA il declino cognitivo e funzionale è più rapido, ma tale peggioramento può essere limitato formando adeguatamente il personale sanitario. «Il personale deve conoscere i fattori di rischio: ad esempio, le cadute compromettono rapidamente l’autonomia, e vanno prevenute con attenzione». Un’altra condizione che peggiora lo stato dei pazienti è il delirium, una sindrome acuta che consiste in una grave alterazione dello stato mentale. I pazienti ospedalizzati o residenti in strutture dedicate perdono i loro punti di riferimento e, per varie ragioni, possono sviluppare questi stati confusionali temporanei, ma che lasciano strascichi cognitivi e contribuiscono al peggioramento generale. «Il delirium è spesso causato da infezioni, dall’inserimento di un catetere o dall’uso di contenzioni che immobilizzano il paziente, a cui si fa ricorso solo quando è inevitabile per evitare cadute e in generale per la sicurezza della persona stessa».
UN CIRCOLO VIZIOSO
I fattori che peggiorano le condizioni dei pazienti sono diversi e collegati tra loro: la malnutrizione, che può essere provocata da malattie, perdita di appetito, problemi di deglutizione, a sua volta facilita lo sviluppo di infezioni e di piaghe da decubito. E le piaghe sono peggiorate dall’immobilità. Nelle fasi più avanzate di malattia i pazienti perdono la capacità di svolgere sempre più attività, a partire da quelle che richiedono l’uso di accessori, fino ad arrivare alla possibilità di orientarsi nello spazio, di nutrirsi autonomamente, di assumere farmaci, di lavarsi e andare in bagno. «Il declino funzionale, a sua volta, aumenta il rischio di depressione e di isolamento sociale», osserva Tondo.
«Si tratta di un circolo vizioso che bisogna interrompere prestando attenzione a tutti questi aspetti e lo si può fare migliorando la qualità dell’assistenza, anche attraverso piccoli gesti. Garantire un’adeguata idratazione, per esempio, migliora le condizioni cognitive e funzionali del paziente, così come permettere una corretta gestione del dolore». Inoltre, è stato osservato che per i pazienti residenti in RSA sono ugualmente importanti la privacy – quindi la possibilità di occupare spazi privati per passare del tempo da soli – e la socialità, la possibilità di svolgere attività stimolanti dal punto di vista cognitivo insieme ad altre persone.
LA CARENZA DI PERSONALE
Per quanto queste accortezze possano sembrare scontate, ogni paziente delle RSA ha delle specifiche esigenze e per offrire un’assistenza adeguata, ancor prima di un personale adeguatamente formato, serve il personale. Nelle RSA di tutta Italia si registra da anni una carenza significativa di medici, infermieri e operatori socio-sanitari (OSS). Il numero stesso delle RSA non risponde alle esigenze della popolazione: secondo i dati del 7° Rapporto dell’Osservatorio Long Term Care del Cergas Bocconi (2025), le strutture presenti in Italia coprono solo il 7,6% del fabbisogno di assistenza per gli anziani non autosufficienti.
INVESTIRE NELLA PREVENZIONE
Anche per queste ragioni, l’intervento fondamentale per garantire – o almeno offrire buone possibilità di – un invecchiamento sano resta la prevenzione. Un rapporto di The Lancet pubblicato nel 2024 ha identificato 14 fattori di rischio di demenza modificabili, su cui si può intervenire per prevenire intorno al 40% dei casi. «Il fattore di rischio più importante è l’istruzione: un basso livello di istruzione è associato a un maggior declino cognitivo. Altri fattori di rischio sono legati alla salute cardiovascolare (la presenza di ipertensione, obesità, diabete), alla situazione occupazionale e sociale (l’isolamento), alla salute mentale, orale e uditiva». A settembre 2024 è partito in Italia lo studio IN-TeMPO, con l’obiettivo di prevenire il declino funzionale e cognitivo nella popolazione anziana attraverso interventi preventivi personalizzati. «Al progetto partecipano diversi centri italiani», spiega Tondo, che è coinvolto nello studio. «La ricerca è in corso: stiamo valutando vari interventi – come il training cognitivo, l’esercizio fisico, il controllo delle malattie cardiovascolari e l’attenzione a un buon rapporto sonno veglia – per identificare l’azione, o la combinazione di azioni preventive, più efficace. Entro un anno dovremmo ottenere i primi risultati».