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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 11-07-2018

Tumore della prostata: ecco come «sopravvive» senza gli androgeni



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Il tumore della prostata è il più frequente negli uomini adulti e, in una percentuale dei casi, evolve in una forma aggressiva e talora fatale. Il ruolo degli androgeni e del sistema immunitario

Tumore della prostata: ecco come «sopravvive» senza gli androgeni

Il tumore della prostata rappresenta la più frequente neoplasia tra gli uomini adulti. Nonostante i recenti progressi terapeutici, in una percentuale di pazienti, dopo un’iniziale fase di risposta positiva alla terapia chirurgica e di deprivazione androgenica, la malattia evolve in una forma resistente e aggressiva, diventando talora fatale.

Per decenni i ricercatori si sono trovati d'accordo nell’affermare che il bersaglio da colpire per arrestarne l’evoluzione fossero gli ormoni maschili - androgenitestosterone, considerati la benzina per la progressione del tumore: sopratutto quando questo è troppo esteso o presenta già delle metastasi - ed effettivamente, in mancanza di questi, le cellule prostatiche tumorali in un primo tempo muoiono. Successivamente, però, alcune di queste attivano una «contromossa» e riescono a sopravvivere anche in mancanza del nutrimento essenziale.

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IL «CORTOCIRCUITO» NEL SISTEMA IMMUNITARIO

Come il tumore - in questo caso si parla di carcinoma prostatico resistente alla castrazione: sono quelli diagnosticati in fase più avanzata, all'incirca 1500 all'anno in Italia, anche se non esiste una statistica così specifica - riuscisse a resistere alla carenza di androgeni e ripartire più forte di prima era rimasto fino ad oggi un mistero.

Ma leggendo le conclusioni di studio pubblicato sulla rivista Nature, adesso è più chiaro cosa accada in questi pazienti.

I ricercatori, alcuni dei quali al lavoro nelle Università di Padova e San Raffaele di Milano, hanno scoperto che, nelle persone che sviluppano una resistenza alla terapia di deprivazione androgenica, con la quale si «affama» il tumore e si interrompe la divisione delle cellule neoplastiche, è il sistema immunitario che, di fatto, «favorisce» la ripresa della malattia.

Il cortocircuito è stato portato alla luce rilevando livelli elevati di interleuchina 23 nel sangue e nelle cellule tumorali prelevati da modelli animali affetti dalla malattia e da campioni umani. L'interleuchina coinvolta è una proteina sintetizzata dalle cellule mieloidi (precursori dei globuli rossi, delle piastrine e dei globuli bianchi) che, stando a quanto osservato in laboratorio, «attiva» i recettori degli androgeni nelle cellule neoplastiche.

Un procedimento che ha come risultato la sopravvivenza e la proliferazione tumorale anche in assenza degli ormoni sessuali maschili.

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VERSO UN'IMMUNOTERAPIA «DIVERSA»?

Sarebbe dunque il nostro sistema immunitario a guidare lo sviluppo della resistenza al trattamento. La scoperta, oltre a fare luce sullo spettro delle interazioni nel microambiente del cancro della prostata, «può aprire la strada a nuove opzioni terapeutiche - afferma Andrea Alimonti, direttore del laboratorio di oncologia molecolare all'Istituto di Ricerca Oncologica di Barcellona e docente di farmacologia all'Università di Padova -.

La portata dell'effetto che le cellule mieloidi hanno nello sviluppare la resistenza potrebbe rivelarrsi cruciale per lo sviluppo di nuove terapie».

Parlando di sistema immunitario, la mente vola all'immunoterapia. All'ultimo congresso Asco, un gruppo di ricercatori inglesi ha presentato i primi risultati in grado di documentare un approccio di questo tipo efficace contro la più frequente neoplasia maschile.

Ma mentre la maggior parte delle immunoterapie attualmente in uso mirano a riattivare il sistema immunitario bloccato dal tumore, la ricerca in questione pone l’attenzione su un modo diverso di concepire l’immunoterapia, che vede bloccare i fattori prodotti dalle cellule del sistema immunitario che fungono da nutrimento per il tumore.

BUONI RISULTATI A LUNGO TERMINE ANCHE SENZA LA CHEMIO

La cosiddetta deprivazione androgenica è una delle strategie difensive messe in atto, anche in maniera esclusiva, quando la malattia è troppo estesa per essere curata in sala operatoria o presenta già delle metastasi.

Ma non di rado, soprattutto dopo un lungo trattamento, alcune cellule tumorali sviluppano una resistenza: così la crescita del tumore può riprendere incontrollata. In questi casi oggi si utilizzano due farmaci: l’abiraterone acetato e l’enzalutamide.

Come emerso in occasione del congresso tenutosi a Chicago, l'aggiunta del primo farmaco (per via orale) al trattamento ormonale standard è in grado di garantire una sopravvivenza superiore a tre anni in più della metà dei pazienti. Mentre la somministrazione del secondo, stando a quanto riportato in uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine, evidenzia un significativo ritardo (da 14 a 36 mesi) nella comparsa di nuove metastasi.

«Questi dati fanno crescere le speranze per i pazienti colpiti da uno dei tumori alla prostata più aggressivi - dichiara Giuseppe Procopio, responsabile della struttura semplice di oncologia medica genitourinaria dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -.

I risultati terapeutici che osserviamo oggi, con un follow-up di tre anni e mezzo, sono comparabili a quelli della chemioterapia, che in questi pazienti non dà però i risultati attesi.

Oggi l’orizzonte è quello di cronicizzare una malattia come il tumore della prostata».

Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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