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Pediatria
Cinzia Pozzi
pubblicato il 28-04-2014

Più trapianti pediatrici con i donatori viventi



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Se a donare un rene o un pezzo di fegato è un consanguineo si hanno maggiori probabilità di successo nel bambino. Una strategia utile anche per abbreviare le lunghe liste di attesa

Più trapianti pediatrici con i donatori viventi

«Qualche anno fa ho rivisto un paziente trapiantato negli anni ’90 a Bruxelles: ha una porzione del fegato del padre, studia, fa sport, è più alto di me e non prende nemmeno più gli immunosoppressori». A raccontare è Jean De Ville De Goyet, direttore del Dipartimento Chirurgico dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, tra i centri italiani con all’attivo il maggior numero di trapianti pediatrici, e che ha visto crescere molti di questi bambini con insufficienza d’organo. Parlare di trapianto su un bambino può fare paura ma diventare ‘grandi’ con il fegato, il cuore, il rene di qualcun’altro si può.

Merito anche delle attuali opzioni chirurgiche, alcuni interventi sono delicati ma a minor rischio di complicanze. Così come per gli adulti, i maggiori ostacoli sono ancora le lunghe liste di attesa e la reperibilità di un organo compatibile: quest’ultimo ancora più difficile se il ricevente è alto un metro e poco più.

 

LA SITUAZIONE IN ITALIA

Secondo i dati del programma nazionale pediatrico del Centro Nazionale Trapianti, nel 2013 in Italia sono stati eseguiti 21 trapianti di cuore, 57 di fegato e 53 di rene. Numeri che, nella migliore delle ipotesi, rispondono solo alla metà delle richieste d’organo: al 31 dicembre dello scorso anno, infatti, i bambini e gli adolescenti ancora in lista di attesa erano 59 per un cuore nuovo, 32 per un fegato e 119 per un rene. «I dati sono però sottostimati – dichiara il chirurgo – prendono in considerazione solo i trapianti da donatori non viventi, in calo negli ultimi anni. Per alcuni organi, invece, c’è la possibilità di avere donatori viventi oppure di trapiantare solo una porzione di organo».

 

UNA DOPPIA OPZIONE

Con il fegato si fa già: si può dividere chirurgicamente in due, dando origine a porzioni separate e funzionanti. La tecnica ‘split’ consente di allungare l’elenco dei possibili donatori, non solo bambini, ma anche adulti e, soprattutto, viventi. E’ quest’ultima l’opzione più interessante: in genere a donare un pezzo di sè sono i genitori del piccolo paziente o dei consanguinei. Dove porta questa strada? «Significa smaltire più velocemente le liste di attesa e avere un intervento programmabile, con possibilità di selezionare un fegato in condizioni ottimali.

Consente anche di aspettare che il bambino sia stabile e in forze per l’intervento». Vantaggi che si traducono in un rischio di mortalità e complicanze post-trapianto più bassi, come dimostrano le statistiche. Perchè non si fa su vasta scala? L’intervento è tecnicamente più delicato, servono centri adeguati. Una doppia opzione si ha anche per il trapianto di rene (viene donato solo un rene), intestino e, in via sperimentale in alcuni Paesi con emergenza di donazioni, il polmone.

 

DOPO IL TRAPIANTO

Molto dipende dall’intervento chirurgico e dalla qualità dell’organo trapiantato ma, in generale i bambini, possono condurre una vita pressoché normale. Significativo è il primo anno post-trapianto: minori le complicanze, maggiori le prospettive per il futuro. «Per quello epatico, se non si verificano particolari complicanze e l’organo era perfettamente funzionante, i benefici clinici possono durare 30 anni – conclude – Però al momento non siamo ancora in grado di offrire questa prospettiva a tutti, anche se ci sono molti margini di miglioramento».

 

 


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