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Pediatria
Paola Scaccabarozzi
pubblicato il 26-02-2024

Un uovo sodo nel piatto. Così una madre racconta l'anoressia della figlia



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La storia è quella di tante famiglie alle prese con i disturbi del comportamento alimentare: come cogliere i segnali d'allarme, a chi rivolgersi?

Un uovo sodo nel piatto. Così una madre racconta l'anoressia della figlia

A. ha 16 anni ed è in cura presso l’Ospedale Bambin Gesù di Roma per anoressia nervosa. Ma la sua storia inizia un bel po’ prima. «Difficile sapere esattamente quando» racconta V., la mamma -. E questo “quando” non è un dettaglio, dettato dal comprensibile desiderio materno di conoscere a posteriore una data o un evento preciso in grado di mettere in atto un meccanismo così complesso come un disordine alimentare. Ma è la voglia di aiutare gli altri genitori a cogliere tutti i segnali possibili per intervenire al più presto. Una solerzia che può fare la differenza sostanziale quando in gioco c’è la pelle della propria figlia. Capita anche ai maschi e sempre di più, ma resta sostanzialmente un disturbo al femminile (con un rapporto di femmine maschi di 8 a 2). E premesso che, come sottolineano gli esperti, non esiste un’unica causa, un padre e una madre si interrogano.

«La storia di A. è incominciata in maniera eclatante circa un anno fa - spiega la mamma - quando ha iniziato a manifestare il desiderio di dimagrire. Era un pochino ingrassata, dopo una parentesi temporale di qualche mese in cui aveva perso peso, complici il Covid e una brutta influenza. Era dimagrita e si piaceva, molto. Poi i chili recuperati… anche se non era affatto in sovrappeso e neppure rotondetta. Non filiforme, certo, ma una ragazza perfettamente normale, anche in relazione al suo metro e settantatré di altezza e alla sua massa muscolare da giocatrice di pallavolo. Da mamma avevo deciso però di assecondare la sua richiesta e così ci eravamo rivolte a una nutrizionista. Una visita in cui la specialista aveva “patteggiato” con A. di scendere di tre chili dal suo peso di partenza: da 60 a 57 kg».

Ma raggiunti i 57 kg A. non era ancora soddisfatta. Prosegue il racconto della madre: «Era diventata nel frattempo sempre più ossessiva nei confronti della dieta che le era stata consigliata. Mai uno sgarro o una dimenticanza, anzi. Si era impuntata a rendere la sua alimentazione ancora più rigida e, al tempo stesso, carente fino ad arrivare a cenare, era l’8 giugno scorso, me lo ricordo, eccome, con un solo uovo sodo. Quell’immagine di lei davanti a quel misero piatto mi aveva definitamente aperto gli occhi».

C’era qualcosa che non andava. «Mi rivolsi al medico di base che con determinazione e lucidità sottolineò l’urgenza. “Se la ragazza soffre di anoressia bisogna saperlo e intervenire alla svelta” mi disse la dottoressa. Il passo successivo fu mettermi in contatto, privatamente, con una psicologa e una nutrizionista che si erano dichiarate esperte nel settore. Non ci eravamo rivolti subito al pubblico perché pensavamo a tempi di attesa eccessivamente lunghi. Ma il supporto settimanale delle due specialiste, o presunte tali, non aveva dato riscontri. A. stava male, era depressa, angosciata. Aveva interrotto le uscite estive con le amiche perché voleva stare solo con i genitori. Quando arrivava l’ora del pasto aveva frequenti attacchi di panico, le mancava l’aria, piangeva, aveva crisi di nervi, si tirava i capelli».

Nel frattempo A. aveva anche sviluppato meccanismi subdoli per controllare le calorie, ricorda V. : «Faceva finta di mangiare, ma si procurava costantemente il vomito, assumeva in continuazione lassativi e nascondeva il cibo. Svolgeva moltissima attività fisica, compresi gli addominali nel letto e trovava tutte le scuse possibili per andare a fare la spesa. Passava ore davanti agli scaffali del supermercato con il fine di controllare la descrizione delle etichette degli alimenti. Una modalità per eliminare istantaneamente i cibi più calorici. Intanto dimagriva, visibilmente. Era arrivata a settembre a pesare 47 kg. Si era blindata in casa, o peggio ancora in camera da letto o in bagno dove si serrava per ore. Piangeva di continuo e parlava sempre meno. Poche frasi e sempre le stesse: “Mi faccio schifo e mi sento sola”. Quando andava bene si lamentava a mezza voce, reiterando un vago “Mi annoio”».

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«Era evidente che la psicoterapia fosse stata fallimentare e pure l’apporto della nutrizionista. Serviva un altro approccio e alla svelta. Arrivammo così finalmente in ospedale, al Bambin Gesù. La prima era stata una visita psichiatrica, durissima. La dottoressa le aveva chiesto senza mezzi termini perché fosse finita lì e che bisogno ci fosse di andare all’ospedale. A., ormai ridotta a pelle e ossa, pesava 44 k. Aveva iniziato a piangere ininterrottamente di fronte al medico e a rispondere a tutte le sue domande. Poi la diagnosi: “anoressia nervosa”. “Dunque io sono un’anoressica? Aveva ribadito A. “Io ho una malattia?”».

«Mia figlia era fortunatamente, nel dramma, consapevole di avere bisogno di aiuto e, soprattutto, disposta (il che non è affatto scontato) a farsi aiutare. Le sue condizioni erano estremamente critiche, quel 6 ottobre. Gli esami e la visita avevano rilevato una grave brachicardia, ossia un’aritmia del cuore, caratterizzata da una frequenza cardiaca a riposo più lenta del normale con battiti e pulsazioni basse. Lei di battiti ne aveva addirittura 35 al minuto».

Necessitava dunque di un immediato ricovero. «Furono quindici i giorni in ospedale, faticosi e sofferti che le hanno salvato la vita, grazie alla sua volontà e alla professionalità e umanità di chi l’ha presa in carico, dagli infermieri a tutta all’equipe. A. è seguita ancora in alta assistenza, insieme a noi genitori. Il che significa incontri individuali e di famiglia, oltre ai suoi controlli medici specifici periodici. Un iter denso e necessario per curare una malattia insidiosa che spesso i genitori non conoscono e non immaginano neppure. Scambiandola con una comune e banale richiesta adolescenziale, si trovano impreparati e incapaci ad affrontare sintomi a cui, per inesperienza, si dà tendenzialmente poco peso. Segnali che sono i campanelli di allarme di una sofferenza profondissima e di un disagio che spesso non ha un nome preciso ed è difficile da indagare. Non sappiamo ancora che cosa abbia innescato questo meccanismo in A. L’anoressia nervosa è infatti il risultato di un mix tra diverse componenti. L’importante però non è ricercare ossessivamente le cause, ma agire. Quando una ragazzina non vuole mangiare, è triste e tende a isolarsi, bisogna intervenire, parlare con il medico di base e ricorrere a centri specializzati che sappiano davvero di che cosa si tratta. Il tempo ha un ruolo imprescindibile».

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Paola Scaccabarozzi
Paola Scaccabarozzi

Giornalista professionista. Laureata in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, con specializzazione all'Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e giornalismo di inchiesta accreditati dall'Ordine Giornalisti della Lombardia. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere.   


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