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Alimentazione
Paola Scaccabarozzi
pubblicato il 13-03-2023

"The Whale" vince l'Oscar (e ci insegna qualcosa sull'obesità)



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Vincitore dell'Oscar per il miglior attore protagonista e per il miglior trucco, "The Whale" è uno spaccato duro e sincero sull'esperienza dell'obesità

"The Whale" vince l'Oscar (e ci insegna qualcosa sull'obesità)

Tapparelle abbassate, finestre chiuse, schermo del computer accesso con la telecamera spenta. Un frigorifero straripante di cibo spazzatura e un deambulatore. Per il resto, una casa come tante, con molti libri perché chi la abita, un professore universitario inglese, gravemente obeso, è una persona estremamente colta e sofisticata. È l’ambientazione, non a caso unica, di The Whale, film del 2022 diretto dal regista americano Darren Aronofsky, adattamento cinematografico all’omonima opera teatrale del 2012, scritta da Samuel D.Hunter e vincitore di due premi Oscar (miglior attore protagonista per Brendan Fraser (nella foto) e miglior trucco e acconciature).

UNA RAPPRESENTAZIONE REALISTICA

«È la situazione tipica in cui vive la persona affetta da obesità che deve fare i conti con una quotidianità molto complessa» spiega Gianluca Castelnuovo, professore Ordinario di Psicologia Clinica presso l’Università Cattolica di Milano e Responsabile del Servizio di Psicologia Clinica all’IRCCS Istituto Auxologico Italiano-Piancavallo, uno dei principali centri europei per la cura dell’obesità. «È difficile muoversi, complicato raccogliere un oggetto caduto per terra, allacciarsi le scarpe… e il film lo rappresenta in maniera magistrale, con realismo e pertinenza. È il racconto di vita dei nostri pazienti. Una storia che coincide perfettamente con quella di molti di loro. È il desiderio di nascondersi, di oscurare la propria esistenza perché chi è obeso e, ancora di più chi è gravemente obeso, sperimenta un senso di inadeguatezza e vergogna. Così le finestre si chiudono e il contatto con l’esterno si limita sempre più nel corso del tempo. Resta un piattino appoggiato fuori di casa con qualche briciola per un uccellino. Il tentativo, quello di mantenere un rapporto, seppur flebile, con il mondo che sta là fuori. La telecamera è quella che dovrebbe mostrare il suo corpo e il suo volto agli studi con cui dialoga e a cui tiene lezione online. Ma il suo schermo resta nero, quasi fino alla fine del film».

È UNA NARRAZIONE PSICO-SOCIALE

«The Whale, il cui titolo stesso è allegorico e il rimando ovvio alla balena, più precisamente a quella di Melville (reiteratamente citato) - prosegue Castelnuovo - è un film molto interessante perché indaga gli aspetti psicologici e sociali dell’obesità, al di là di quelli strettamente biologici. Mette in evidenza le difficoltà non solo di relazione con gli altri, legate allo stigma che viene percepito da chi soffre di obesità, ma innesca anche una riflessione sulla percezione del proprio stato di salute. Quanto si è consapevoli di se stessi e dei rischi connessi alla propria condizione? Quanto un aiuto esterno qualificato è importante per far fronte alle proprie difficoltà?».

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IGNORATI, ANCHE DAL SISTEMA SANITARIO

Il film pone l’accento anche le falle del sistema sanitario americano: curarsi è molto difficile per chi non ha le possibilità economiche per farlo. «E di conseguenza - commenta Castelnuovo - il ruolo imprescindibile di un sistema sanitario in grado di garantire un ricovero e un periodo di riabilitazione, qualora necessari. Interessante anche lo sguardo acuto sulla sensazione di profonda solitudine che non è tipica unicamente dell’americano medio che risiede in lande desolate, ma anche di una persona obesa priva del supporto di familiari, amici o vicini di casa».

L’USO DEL LINGUAGGIO

La figlia, con cui il protagonista ha un rapporto complicato, lo chiama volutamente e con aria di assoluto spregio: “Ciccione!”. «Sei un ciccione, sei un grassone, sei una balena - prosegue lo psicologo - non sono solo sgradevoli modi di dire, ma maniere per alimentare un processo di identificazione con il proprio grasso in eccesso, senza possibilità alcuna di miglioramento. Dire “sei…”, significa negare la speranza. Non esiste una coincidenza irreversibile e statica con una situazione che può essere invece modificata. C’è la possibilità di perdere peso e di trasformare un’obesità grave in un’obesità più lieve o in sovrappeso modesto. A chi soffre di obesità bisogna, dunque, dire: “Hai questa condizione, non sei…”. L’atteggiamento della figlia adolescente, legato alla loro storia specifica, al carattere della ragazza, agli eventi e alla situazione individuale sono però emblematici della difficoltà di chi vive accanto a una persona gravemente obesa. Lo stress vissuto in prima persona diventa spesso dilagante e faticoso perché innesca meccanismi molto complessi nella famiglia. E anche di questo bisogna tenere conto, nel prendersi cura».

L'AIUTO DI SPECIALISTI SERVE

Il protagonista si abbuffa, il protagonista percepisce l’irreversibilità del proprio stato e perde fiducia, vuole uscire di scena. «Accade purtroppo che talvolta prevalga in chi soffre di obesità un atteggiamento rinunciatario, la percezione della sconfitta. E - spiega Castelnuovo - a questi sentimenti si dà spazio in vari modi, soprattutto abbuffandosi e innescando un vortice in cui la perdita di controllo e il senso di colpa si alternano in una spiarle mortifera. A volte, invece, basterebbe un momento di stop. Un ricovero in alcune situazioni è davvero salvifico, così come lo sono interventi specifici e mirati di esperti».

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L'OCCHIO DEGLI ALTRI (E DEI SOCIAL)

«Capita inoltre che chi è affetto da obesità voglia, a un certo punto, mostrarsi agli altri perché stufo di fingere, di nascondersi. Così accade al nostro protagonista di fronte ai suoi studenti. Nelle ultime scene il professore accende la telecamera e si espone al loro sguardo: viso e corpo in un’inquadratura crudele e lentissima. I ragazzi osservano, ognuno con occhi diversi, dalle proprie telecamere il loro insegnante. Una studentessa scatta una foto. Sono i social, talvolta impietosi».

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Paola Scaccabarozzi
Paola Scaccabarozzi

Giornalista professionista. Laureata in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, con specializzazione all'Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e giornalismo di inchiesta accreditati dall'Ordine Giornalisti della Lombardia. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere.   


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