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Daniele Banfi
pubblicato il 04-07-2022

Cellule T: un test per scoprire quanto si è protetti contro Covid-19



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Non solo anticorpi. Le cellule T sono fondamentali nel proteggere da malattia grave. Sviluppato un test che servirà, su larga scala, a stabilire il livello di immunizzazione delle persone

Cellule T: un test per scoprire quanto si è protetti contro Covid-19

Le cellule T sono fondamentali nel combattere contro Sars-Cov-2, il virus responsabile di Covid-19. Oltre agli anticorpi infatti, utili nel neutralizzare l'agente patogeno ed evitare l'ingresso del virus nella cellula, le cellule T sono importanti perché capaci di riconoscere ed eliminare le cellule infettate. E' grazie al loro contributo che la malattia si fa meno severa. Ecco perché, poter comprendere se si è in "possesso" di queste cellule, sarà utile per stabilire il grado di protezione nella popolazione e selezionari chi necessità di un'ulteriore protezione tramite vaccinazione. Da oggi tutto ciò sarà possibile grazie ad un test di attivazione delle cellule T sviluppato da un team di ricerca internazionale della New York Ichan School of Medicine, della Singapore Duke-NUS Medical School, di SYNLAB e di Hyris. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Biotechnology.

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COME FUNZIONA LA RISPOSTA IMMUNITARIA?

Quando il nostro corpo viene in contatto con un agente esterno dannoso come Sars-Cov-2 produce una reazione immunitaria composta da due fasi: quella aspecifica -presente già alla nascita e non dipendente da incontri pregressi- e quella specifica, diretta in maniera precisa contro quel determinato agente esterno. Quest'ultima è essenzialmente mediata da due tipi di cellule: i linfociti B e i linfociti T. I primi sono i responsabili della produzione di anticorpi, i secondi della risposta cellulare al virus, ovvero il riconoscimento e l’eliminazione delle cellule infettate dal virus. In entrambi i casi in seguito ad un'infezione o alla vaccinazione si creano specifiche cellule della memoria in grado di attivarsi in caso di incontro con il patogeno.

A COSA SERVE IL SIEROLOGICO?

Ad oggi, fatta eccezione per sofisticati metodi disponibili attraverso tecniche di indagine accademica, l'unica via per capire se si è sviluppata una risposta immunitaria in seguito all'incontro con il virus o la vaccinazione è rappresentato dai test sierologici. Questi possono essere essenzialmente di due tipi: quelli rapidi e quelli quantitativi. I primi, grazie ad una goccia di sangue, stabiliscono se la persona ha prodotto anticorpi -e quindi è entrata in contatto con il virus-; i secondi, dove serve un prelievo, dosano in maniera specifica le quantità di anticorpi prodotti. In entrambi i casi i test sierologici vanno alla ricerca degli anticorpi (immunoglobuline) IgM e IgG. Le IgM vengono prodotte temporalmente per prime in caso di infezione. Con il tempo il loro livello cala per lasciare spazio alle IgG. Quando nel sangue vengono rilevate queste ultime, le IgG, significa che l'infezione si è verificata già da diverso tempo e la persona ha sviluppato immunità al virus.  

"Avere gli anticorpi" però non significa essere per forza protetti dall'infezione. Nel tempo questi calano e per un eventuale incontro con il virus non sono sufficienti ad evitare l'infezione. Ed è in questi casi che subentra la risposta delle cellule T. I dati parlano chiaro: mentre nel tempo la reattività delle cellule B e la quantità di anticorpi neutralizzanti cala ed è molto ridotta contro Omicron -ragione per cui si è optato per la dose booster-, la risposta delle cellule T non subisce lo stesso brusco calo. La ragione è presto detta: le cellule T di ogni individuo vaccinato sono "allenate" a riconoscere non un solo elemento della proteina spike ma in media una ventina di porzioni differenti del virus, motivo per cui queste cellule non risentono in maniera significativa della variante che si trovano di fronte. Tradotto: anche in caso di infezione o reinfezione, le cellule T diminuiscono la severità della malattia in presenza di varianti mai incontrate in precedenza.

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COME SI MISURA LA RISPOSTA A CELLULE T?

Comprendere se si è sviluppata una risposta del genere è dunque fondamentale per capire se la persona risulta protetta, almeno in parte, dal contagio. Grazie infatti alla presenza di linfociti T reattivi un individuo negativo a un test sierologico per gli anticorpi potrebbe comunque essere ancora protetto. Sino ad oggi valutare la presenza di queste cellule è risultato molto difficoltoso e confinato a studi accademici per via della complessità dei test. Uno scenario destinato a cambiare grazie allo sviluppo di un test in grado di rilevarne la presenza. L'esame, descritto sulle pagine di Nature Biotechnology, consiste nella quantificazione dell'mRNA di CXCL10, un particolare recettore posto sui linfociti T. Le analisi hanno dimostrato che attraverso un semplice prelievo di sangue è possibile misurare il grado di attivazione di queste cellule T specifiche contro Sars-Cov-2.

A COSA SERVE IL TEST?

Il test, ora in attesa dell'approvazione clinica da parte della FDA ed EMA, se utilizzato su larga scala aiuterà a comprendere il livello di immunizzazione della popolazione generale e servirà nel "disegnare" nuove e diverse strategie nella campagna vaccinale. Conoscere, soprattutto negli individui più fragili, il livello di risposta a cellule T aiuterà i decisiori a tarare in maniera personalizzata le strategie di prevenzione di Covid-19.

Daniele Banfi
Daniele Banfi

Giornalista professionista è redattore del sito della Fondazione Umberto Veronesi dal 2011. Laureato in Biologia presso l'Università Bicocca di Milano - con specializzazione in Genetica conseguita presso l'Università Diderot di Parigi - ha un master in Comunicazione della Scienza ottenuto presso l'Università La Sapienza di Roma. In questi anni ha seguito i principali congressi mondiali di medicina (ASCO, ESMO, EASL, AASLD, CROI, ESC, ADA, EASD, EHA). Tra le tante tematiche approfondite ha raccontato l’avvento dell’immunoterapia quale nuova modalità per la cura del cancro, la nascita dei nuovi antivirali contro il virus dell’epatite C, la rivoluzione dei trattamenti per l’ictus tramite la chirurgia endovascolare e la nascita delle nuove terapie a lunga durata d’azione per HIV. Dal 2020 ha inoltre contribuito al racconto della pandemia Covid-19 approfondendo in particolare l'iter che ha portato allo sviluppo dei vaccini a mRNA. Collabora con diverse testate nazionali.


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