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Agnese Collino
pubblicato il 20-02-2017

Cerco marcatori per la leucemia mielomonocitica giovanile



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L’unico trattamento per questa rara forma di leucemia è il trapianto di midollo: Pierpaolo Leoncini mira a individuare nuove molecole bersaglio per la diagnosi e la terapia

Cerco marcatori per la leucemia mielomonocitica giovanile

La leucemia mielomonocitica giovanile è un tipo di leucemia rara che colpisce bambini piccoli, mediamente sotto i 4 anni, e solitamente destinata a una prognosi infausta: chi ne è affetto presenta alti livelli di emoglobina di tipo fetale, un ingrossamento della milza e talvolta anemia. Purtroppo per la leucemia mielomonocitica giovanile non esiste ad oggi alcun tipo di trattamento chemioterapico: l'unico intervento curativo è il trapianto di cellule staminali ematopoietiche, che tuttavia comporta frequenti complicanze e che è comunque associato ad un alto tasso di ricaduta. La leucemia mielomonocitica giovanile fa parte della famiglia delle mielodisplasie, un gruppo di malattie ematologiche pediatriche spesso difficilmente distinguibili e la cui classificazione medica è ancora oggetto di dibattito. Il biotecnologo Pierpaolo Leoncini, sostenuto dal progetto Gold for Kids della Fondazione Umberto Veronesi presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, punta a individuare nuovi marker diagnostici e prognostici per migliorare l’identificazione dei pazienti affetti da JMML e trovare potenziali target terapeutici.

 

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Pierpaolo, parlaci più nel dettaglio del tuo progetto di ricerca.

«La leucemia mielomonocitica giovanile presenta mutazioni genetiche caratteristiche, che alterano alcune vie di segnalazione intracellulari alla base della proliferazione aberrante. Lo scopo del mio progetto è di sviluppare nuove strategie terapeutiche, prognostiche e diagnostiche concentrandomi sullo studio di enzimi chiamati fosfatasi alcaline e particolari molecole note come microRna (miRna). Le fosfatasi alcaline sono gli enzimi deputati allo spegnimento dei segnali intracellulari, mentre i miRna sono dei fini regolatori della sintesi delle proteine. Un difetto nell’interazione di questi due importanti meccanismi potrebbe contribuire alla trasformazione e proliferazione aberrante delle cellule leucemiche. Svelare i meccanismi d’interazione tra le fosfatasi alcaline e i miRna potrebbe quindi rivelare l’esistenza di gruppi di cellule con un ruolo chiave nella comparsa e nella progressione della leucemia, e potrebbe dunque auspicabilmente aiutare a identificare nuovi bersagli per la terapia. Fortunatamente stiamo già iniziando ad ottenere risultati promettenti».

 

Quali prospettive apre questo tuo lavoro per la conoscenza biomedica?

«La comprensione più approfondita dei meccanismi molecolari alla base di questa forma di leucemia potrebbe essere utile per discriminare in maniera più sicura e più precoce i pazienti affetti. Potrebbe inoltre portare all’individuazione di target per un’eventuale terapia farmacologica mirata, ampliando il ventaglio delle possibilità di trattamento: la speranza è di contribuire a migliorare la prognosi, diminuire il tasso di ricaduta e fornire alternative ad un trattamento invasivo come il trapianto di midollo osseo».

 

Sei mai stato all’estero a fare un’esperienza di ricerca?

«Ho studiato e lavorato per poco più di un anno alla Ohio State University negli Stati Uniti, durante la mia tesi di dottorato. Ho avuto l’onore di essere seguito da supervisori di chiara fama (Ramiro Garzon e Carlo Maria Croce, ndr) in una delle migliori realtà al mondo nello studio dei miRna».

 

Ricordi il momento in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«Ho scelto di fare ricerca per la mia innata curiosità, la voglia di capire, di parlare con gli altri e creare qualcosa di nuovo, che possa fare del bene a me e a chi ho intorno. Forse però il momento in cui ho realmente deciso che il mio campo di studi sarebbe stato l’oncologia è stato quando mi fu diagnosticato un sarcoma: venni operato tante volte e mi fece soffrire moltissimo. Dopo i primi interventi, decisi che mi sarei impegnato affinchè nessuno dovesse più soffrire in questo modo».

 

Cosa ti piace di più della ricerca? E cosa invece eviteresti volentieri?

«La cosa più bella è la possibilità di usare la propria fantasia nel lavoro di tutti i giorni per creare qualcosa di utile, mai fine a se stesso. Se potessi, invece, farei volentieri a meno del lavoro d’ufficio».

 

Pensi che la scienza e la ricerca abbiano dei lati oscuri?

«Decisamente sì. Uno dei maggiori, a mio parere, è l’interesse economico, soprattutto delle case farmaceutiche investitrici, che a volte sposta la ricerca verso un tornaconto personale piuttosto che verso la direzione giusta. Basti pensare a come spesso i medicinali vengano messi a punto per chi se li può permettere, e non per chi ne abbia realmente bisogno. Un altro grande problema, sempre collegato all’aspetto economico, è la pressione esagerata al fine di pubblicare articoli e poter quindi richiedere fondi: un meccanismo che abbassa la qualità delle ricerche, crea una competizione dannosa e in qualche caso, ahimè, porta alla pubblicazione di dati falsi».

 

Hai qualche hobby o passione al di fuori dell’ambito scientifico?

«Mi piace moltissimo viaggiare e cucinare, inoltre sono un musicista e un dj. Se non avessi fatto ricerca mi sarei senz’altro dedicato alla musica».

 

Quando è stata l’ultima volta che ti hai pianto?

«Mi sono commosso per l’impresa paraolimpica di Bebe Vio: ha un grandissimo carattere ed è sicuramente una fonte d’ispirazione, soprattutto per i più giovani».

 

Una cosa che vorresti assolutamente fare almeno una volta nella vita.

«Viaggiare nello spazio».

 

La cosa che più ti fa arrabbiare?

«Il razzismo».

 

La cosa che ti fa ridere a crepapelle.

«Il cinema trash italiano».

 

Il tuo libro preferito?

«Il piccolo principe».

 

Hai qualche episodio particolare che ti è capitato durante il tuo lavoro?

«Una volta ho preso l’ascensore insieme ad un piccolo paziente diretto alla sala operatoria con i suoi genitori. Il ragazzo mi ha afferrato il braccio e mi ha chiesto di andare anch’io con loro: aveva molta paura. Non potevo farlo ovviamente, ma non l’ho lasciato fino a che non è stato sedato per prepararsi all’intervento. Pur non potendo fare di più, non avrei mai potuto rifiutarmi di aiutarlo».

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