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Agnese Collino
pubblicato il 01-08-2016

Colture cellulari 3D per studiare i tumori alla prostata



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Capire come si diffonde la resistenza alla terapia tra le cellule nelle metastasi: è l’obiettivo di Francesco Cambuli, ricercatore sostenuto grazie al progetto SAM-Salute al maschile

Colture cellulari 3D per studiare i tumori alla prostata

Il cancro alla prostata è una delle forme di tumore più diffuse al mondo: per questo motivo la Fondazione Umberto Veronesi l’ha posto al centro delle proprie iniziative con il progetto Salute al Maschile (SAM). In fase precoce può essere trattato efficacemente a lungo termine, ma nel 10-20% dei casi la diagnosi avviene quando il tumore ha già formato metastasi. In queste situazioni l’efficacia della terapia (la deprivazione androgenica) è di breve durata (circa 1-2 anni), poiché la maggior parte dei tumori diventa resistente e riprende a crescere. Comprendere i meccanismi attraverso i quali questi tumori acquisiscono resistenza alla terapia è l’obiettivo di Francesco Cambuli, biotecnologo cagliaritano trapiantato a Trento, dove lavora come ricercatore post-dottorato al Center for Integrative Biology (CIBIO). 

Francesco, raccontaci nei dettagli del tuo progetto di ricerca.

«Uno studio eseguito su biopsie di tumori prostatici tramite sequenziamento avanzato del DNA ha recentemente dimostrato che le metastasi non sono composte al loro interno da cellule dotate tutte dello stesso corredo genetico, ma che al contrario sono formate da diversi cloni cellulari (cioè da diversi gruppi di cellule, ciascuno discendente da una diversa cellula “capostipite”) che cooperano tra loro. Tuttavia i meccanismi molecolari responsabili di tali interazioni sono al momento sconosciuti. Il progetto si propone di sviluppare modelli innovativi di cancro alla prostata, tramite la generazione di prostatosfere (modelli cellulari 3D dell’epitelio prostatico) geneticamente modificate in modo da esprimere alcune tra le più frequenti alterazioni genetiche presenti nei tumori insensibili alla terapia. Tramite la coltivazione di prostatosfere sensibili alla terapia assieme a prostatosfere resistenti, verificherò se l'interazione tra cloni tumorali diversi può causare la diffusione della capacità di resistere alla terapia e quali sono gli eventuali meccanismi responsabili per questo fenomeno». 

Quali eventuali prospettive si aprirebbero per la conoscenza biomedica per la salute umana?

«Comprendere le modalità attraverso cui i distinti cloni tumorali comunicano tra loro all'interno dell'organismo può portare alla scoperta di nuovi marcatori prognostici e alla progettazione di farmaci capaci di inibire tali interazioni». 

Sei mai stato all’estero a fare un’esperienza di ricerca? Se sì dove? Cosa ti ha spinto ad andare?

«Sono stato a Cambridge, spinto dal desiderio di apprendere il mestiere del ricercatore, di conoscere un paese ed una lingua straniera».

Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Ti è mancata l’Italia, e perché?

«A Cambridge sin da subito mi è stata data la libertà e la responsabilità di portare avanti il mio progetto di ricerca, in un contesto di collaborazione e confronto con colleghi e ricercatori. Ho apprezzato l’ambiente culturale vivace e l’amore per la vita all'aria aperta. La gente locale è fiera della propria identità inglese, ma anche aperta verso chi viene da fuori. Tuttavia mi è mancata l'Italia: da noi la cultura umanistica permea anche la ricerca scientifica, un forte legame tra ricerca ed insegnamento, uno straordinario patrimonio culturale ed artistico».

Ricordi l’episodio in cui hai capito che la tua strada era quella della scienza?

«Fin da piccolo desideravo contribuire al miglioramento della salute umana, ma non mi sentivo tagliato per la professione medica. Fare ricerca poteva essere un modo altro per raggiungere questo obiettivo. Tuttavia è stato quando sono arrivato al Babraham Institute a Cambridge, osservando la comunità di ricercatori esplorare la biologia della cellula in quei semplici laboratori immersi in un bellissimo giardino, che ho sentito davvero di voler far parte di quella comunità».

Cosa ti piace di più della ricerca?

«Osservare le cellule al microscopio. La loro bellezza e varietà non finisce mai di stupirmi».

Cosa avresti fatto se non avessi fatto il ricercatore?

«Penso che avrei provato a fare il giornalista. Mi piace molto osservare e raccontare ciò che mi circonda».

Se dovessi scommettere su uno-due filoni di ricerca biomedica che fra cinquant’anni anni avranno prodotto un concreto avanzamento per la salute su cosa punteresti?

«Penso che la bioinformatica e la bioingegneria permetteranno di comprendere meglio la complessità dei processi biologici, consentendoci di riparare i tessuti danneggiati dalle malattie e dall'invecchiamento».

Se un giorno tuo figlio ti dicesse che vuole fare il ricercatore cosa gli diresti?

«Gli direi di fare ciò che gli fa battere il cuore e scatenare la fantasia, pur rimanendo con i piedi per terra, e provare a realizzarlo nel luogo in cui gli è dato di vivere. Di cercare un “maestro” da cui imparare e compagni con cui condividere l'attività».

C’è un posto che vorresti assolutamente visitare almeno una volta nella vita?

«Vorrei visitare Ellis Island. Luogo simbolo di chi si è messo in viaggio alla ricerca di una vita migliore».

Hai un ricordo a te caro di quando eri bambino?

«Mio padre lavorava come segretario dell'Associazione Panificatori di Cagliari. Quando ero piccolo, mi portava con lui nel giro che ogni sabato mattina faceva nei panifici, per raccogliere e prendere documenti. Mi ricordo il profumo che usciva dai forni ormai spenti ed i volti di quegli uomini stanchi dopo aver lavorato tutta la notte, eppure allegri per la settimana di lavoro appena conclusa. A me piaceva pensarli soddisfatti, per aver prodotto in modo nuovo uno dei cibi più antichi del mondo. Il modo di lavorare di quelle persone, il loro sapere artigianale, a un tempo antico e moderno, mi è sempre stato di esempio, anche nella mia attività di ricerca».

 Con quale personaggio famoso ti piacerebbe andare a cena una sera e cosa ti piacerebbe chiedergli?

«Mi sarebbe piaciuto andare a cena con Rita Levi-Montalcini. La sua autobiografia “Elogio dell'Imperfezione” è uno dei miei libri preferiti. Non so bene che cosa le avrei chiesto: forse degli anni della guerra, di quelli trascorsi negli Stati Uniti, o forse delle difficoltà incontrate in Italia nello svolgere la sua attività e del suo impegno civile. Forse semplicemente ascolterei per cercare di cogliere qualcosa di quello spirito che le ha permesso di vivere con tutta se stessa per oltre cento anni». 


@AgneseCollino

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