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Agnese Collino
pubblicato il 18-06-2018

I microRna: nuove armi contro il melanoma metastatico



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Durante lo sviluppo del tumore cambiano i livelli di alcuni piccoli Rna: Luigi Fattore verificherà se queste molecole possano essere usate per migliorare le cure o predire una resistenza alle terapie

I microRna: nuove armi contro il melanoma metastatico

Il melanoma è la forma più aggressiva di cancro della pelle e la sua incidenza negli ultimi anni è in aumento. Nelle forme metastatiche di questo tumore, è spesso presente una mutazione su uno specifico gene, BRAF: questa osservazione ha portato allo sviluppo di terapie mirate, in grado di colpire solo le cellule maligne con questa mutazione e risparmiare le cellule normali. Questi farmaci hanno portato importanti miglioramenti nella sopravvivenza dei pazienti rispetto alle chemioterapie classiche. Tuttavia un importante scoglio da superare è lo sviluppo, nel tempo, di una resistenza a queste terapie mirate. Comprendere i meccanismi alla base di questo fenomeno è quindi fondamentale per migliorare le terapie attuali o concepirne di nuove, in modo da limitare o eliminare lo sviluppo di recidive tumorali.

L’acquisizione di resistenza ai farmaci può avere cause genetiche (come lo sviluppo di nuove mutazioni) o di altra natura: tra queste, ad esempio, un cambiamento nella produzione di Rna non codificanti detti microRna. Queste piccole ma importanti molecole, potenzialmente di grande interesse nel trattamento del melanoma, sono al centro del progetto di ricerca di Luigi Fattore, che lavora all’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma grazie a un finanziamento della Fondazione Umberto Veronesi.

 

Luigi, parlaci più nel dettaglio del tuo progetto di ricerca.

«Negli ultimi vent’anni abbiamo compreso che i microRNA rivestono un ruolo fondamentale nella regolazione di molti processi cellulari, sia in condizioni normali che patologiche. Recentemente nel nostro laboratorio abbiamo identificato un gruppo di microRna i cui livelli variano sensibilmente prima e dopo lo sviluppo della resistenza alla terapia anti-BRAF nel melanoma metastatico: in questo mio progetto mi propongo quindi di definire se questi microRna possano essere impiegati come adiuvanti da abbinare alle cure a disposizione. Un secondo obiettivo è quello di utilizzare questi microRNA per sviluppare un pannello diagnostico, per predire nei pazienti l’eventuale sviluppo di resistenza alla terapia».

 

Si tratterebbe quindi di uno strumento che aiuterebbe a personalizzare le cure?

«Esattamente: se i risultati saranno positivi, sarà possibile mettere a punto un metodo diagnostico non invasivo che a partire da un prelievo di sangue permetterà di predire la risposta al trattamento in maniera individuale, per identificare in anticipo i pazienti che potrebbero andare incontro a resistenza e prendere le misure più opportune per contrastare il fenomeno».

 

Sei mai stato all’estero per fare ricerca?

«Durante il dottorato ho effettuato un’esperienza formativa fondamentale presso l'Università dell'Ohio. Vivere per un periodo negli Stati Uniti era un sogno che avevo fin da bambino. Ho imparato a confrontarmi con me stesso e a cavarmela in un laboratorio a me inizialmente sconosciuto e poi diventato progressivamente casa, tanto che ci sono poi tornato per un secondo periodo dopo il dottorato. Ho conosciuto delle persone fantastiche che mi hanno insegnato tanto e con le quali siamo ancora in rapporti di collaborazione».

 

Ti è mancata l’Italia?

«Molto, soprattutto nella mia seconda esperienza: avevo instaurato una relazione stabile di convivenza che ha reso le cose un po' più difficili, ma fortunatamente con la comprensione siamo riusciti a superare tutto. Devo dire che, nonostante i tanti vantaggi nel lavorare in un laboratorio estero (in termini di disponibilità economica, di attrezzature e di reagentario), ne sono uscito ancora più convinto di voler provare a fare il mio lavoro nel mio Paese».

 

Riesci a ricordare quando è nata la tua passione per la scienza?

«Da piccolo collezionavo riviste su dinosauri e animali in generale, che ne parlavano in dettaglio dal punto di vista scientifico. Il protagonista di uno dei miei film preferiti di sempre ("Ritorno al Futuro") è proprio uno scienziato, Emmett Brown: ogni volta rimanevo affascinato da questa stravagante e geniale figura. Uno dei miei miti poi era Piero Angela: la sua grandissima capacità di divulgazione ha molto rinforzato il mio desiderio di dedicarmi alla scienza».

 

E cos’è che oggi dà un significato profondo alle tue giornate in laboratorio?

«Fare il mio lavoro con amore e tornare a casa con la consapevolezza di aver fatto il mio dovere. Che per me significa non solo portare avanti le sperimentazioni con dedizione dal punto di vista scientifico, ma anche e principalmente trasmettere la mia passione ai colleghi, soprattutto ai più giovani. Fortunatamente ho avuto insegnanti che hanno saputo motivarmi: questa passione è immutata e penso risplenda ancora dentro di me. Forse il significato profondo di ogni mio giorno lavorativo è proprio donare agli altri ogni singola cosa che io ho avuto la fortuna di ricevere».

 

Quali pensi che siano gli aspetti peggiori della ricerca oggi?

«In primo luogo, la crescente diffusione di articoli scientifici falsi, basati su dati già pubblicati o peggio inventati. Credo che questo problema dipenda dal fatto che ormai spesso ci siano grandi interessi economici per i quali non è più importante cosa si pubblica, ma più generalmente il fatto che si pubblichi. C’è sempre meno tempo per dedicarsi alla formazione dei giovani perché il mondo che ci ruota attorno corre troppo velocemente, nonostante siano proprio loro che nella stragrande maggioranza dei casi portano avanti le attività scientifiche. Un altro punto debole è la sempre minore disponibilità di risorse economiche. Un grande aiuto dovrebbe essere dato dallo stato, per non lasciar morire la ricerca come punto forte della nostra Italia. In questa situazione le realtà come Fondazione Umberto Veronesi danno un contributo fondamentale. Vorrei davvero ringraziarvi per la possibilità che avete dato a me e a tanti giovani colleghi di portare avanti il nostro lavoro».

 

Grazie a te per il vostro prezioso impegno di ogni giorno. Ma parliamo un po’ di te: qual è il tuo ricordo più bello di quando eri bambino?

«La trepidazione della sera prima di entrare ad Euro Disney a Parigi, con i miei genitori e mio fratello. Avevo il pupazzetto del granchio Sebastian della "Sirenetta" e lo tenni stretto a me nel letto per tutto il tempo perché non riuscivo a dormire dall'emozione».

 

La cosa che più ti fa arrabbiare?

«Le persone che si piangono addosso e non fanno nulla per migliorare la loro condizione di infelicità».

 

Quando è stata l’ultima volta che ti sei commosso?

«L’anno scorso, poco prima di Natale. Nel nuovo palazzo dove abito ho conosciuto un anziano signore: mi ha parlato della moglie morta da pochi anni e con la quale è stato sposato per quasi sessant'anni. Le sue parole e il suo sguardo mi hanno insegnato tanto su come possa durare un rapporto di coppia negli anni nonostante le difficoltà e il tempo che passa. Il suo amore sembrava intatto e si percepiva il senso di abbandono, una mancanza che figli e nipoti non riuscivano a colmare. Perdere le persone che amo è proprio la mia paura più grande: penso che la sensazione di vuoto che ne derivi sia peggio della morte».

 

Agnese Collino
Agnese Collino

Biologa molecolare. Nata a Udine nel 1984. Laureata in Biologia Molecolare e Cellulare all'Università di Bologna, PhD in Oncologia Molecolare alla Scuola Europea di Medicina Molecolare (SEMM) di Milano, Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza all'Università di Ferrara. Ha lavorato nove anni nella ricerca sul cancro e dal 2013 si occupa di divulgazione scientifica


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