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Redazione
pubblicato il 20-08-2015

Colestasi gravidica: quali rischi per la donna?



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Risponde Antonio Lanzone, direttore dell'unità complessa di patologia ostetrica del Policlinico Gemelli di Roma

Colestasi gravidica: quali rischi per la donna?

Sono una donna di 37 anni e quattro anni fa, nel corso del terzo trimestre della prima gravidanza, mi è stata diagnosticata una colestasi gravidica. Adesso sono di nuovo incinta: c’è il rischio che la malattia si ripresenti? Assunta L. (Foggia)

La colestasi gravidica è una malattia del fegato che insorge quasi sempre nelle fasi finali della gravidanza. L’incidenza è piuttosto bassa (1-2% delle gestazioni). Ma il rischio è almeno del 50% più alto nei casi come il suo, in cui la donna sta affrontando una gravidanza e ha già un precedente con la malattia. Occorre perciò prestare attenzione ai valori della bilirubina, delle transaminasi e al prurito: unico sintomo chiaro della malattia nella donna. Quasi mai, invece, compare l’ittero.

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Gravidanza e allattamento

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Non esistono particolari fattori di rischio per la colestasi gravidica, se non la presenza di calcoli nella cistifellea. L’età della gestazione non è un problema. Di fatto ci si trova di fronte a una delle condizioni meno definite di questo particolare periodo della vita, in cui spesso si scoprono altre malattie transitorie: come il diabete gestazionale, l’ipertensione e la sindrome metabolica. La colestasi gravidica, causata da un’alterata degradazione degli acidi biliari nel fegato, non è considerata un problema grave per la futura mamma. La terapia standard è a base di acido ursodesossicolico, un farmaco utilizzabile anche a dosi elevate: senza particolari controindicazioni per il feto.

Si consiglia di assumere la vitamina K soltanto nel caso in cui si manifestino anche problemi di coagulazione, alla base di emorragie post-partum. Attraverso il monitoraggio dei valori biliari e dell’ittero, si scopre che il ritorno nella norma avviene di solito nei tre mesi che seguono il parto.

Ben più gravi, invece, possono essere le conseguenze per il feto. Non di rado, infatti, una complicanza della malattia è rappresentata dalla sua morte intrauterina, anche quando sembrerebbe essere in buone condizioni. La causa è rappresentata dall’effetto tossico degli acidi biliari, per cui non esiste un valore al di sotto del quale si può essere sicuri del buon esito della gravidanza. Quando si diagnostica la colestasi gravidica, si avvia subito la terapia medica, con lo scopo di arrivare alla trentasettesima settimana di gravidanza e anticipare il parto.

Studi recenti stanno facendo emergere che la colestasi, se trascurata, può provocare danni anche seri al bambino, come sofferenza fetale, morte endouterina, asfissia neonatale o morte neonatale. Questo perché l’accumulo di acidi biliari nel sangue può ridurre la sintesi di surfattante polmonare, una sostanza prodotta dal feto che induce la maturità polmonare e consente al bambino l’autonomia respiratoria al momento della nascita.

In più, possono provocare l’immissione di meconio (le prime feci prodotte dal bambino) nel liquido amniotico che, inalate, possono dare asfissia subito dopo la nascita. Per questo motivo le linee guida internazionali consigliano di non procrastinare il parto oltre le 37 settimane, quando potrebbero presentarsi i maggiori rischi.

Il farmaco che si ritiene il "golden standard" è l’acido ursodesossicolico, che aiuta ad alleviare il prurito, migliora i parametri fetali e dà i minori effetti collaterali. Con la terapia farmacologica e con controlli più assidui la colestasi può essere efficacemente tenuta sotto controllo, fino al momento in cui si valuta che è opportuno indurre il parto.

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