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Oncologia
Fabio Di Todaro
pubblicato il 31-08-2020

Così il tumore del colon si «difende» dall'attacco dei farmaci



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Nel tumore del colon metastatico alcuni «focolai» di cellule maligne determinano la comparsa di recidive. Per aggredirle si punta ai nuovi farmaci a bersaglio molecolare

Così il tumore del colon si «difende» dall'attacco dei farmaci

Anche le cellule dei tumori del colon-retto metastatici all'apparenza  «irriducibili», che (al momento) non si arrendono neppure di fronte alle terapie più efficaci, hanno un tallone d’Achille. Si tratta di alcuni segnali molecolari che aiutano queste cellule a trovare una nicchia in cui sopravvivere, «addormentandosi» per poi tornare in azione e provocare ricadute. Ed è a questi - due quelli identificati in uno studio pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine dai ricercatori dell'Istituto Tumori di Candiolo - che bisogna puntare per vincere le diagnosi più refrattarie, quelle che continuano a provocare i decessi di quella che è la seconda forma di cancro più diffusa in Italia. 

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I DUE RECETTORI CHE INIBISCONO IL CETUXIMAB

I ricercatori hanno individuato in due recettori espressi dalle cellule tumorali gli «scudi molecolari» da infrangere. Queste due proteine di membrana sono considerate «sorelle» del bersaglio della terapia farmacologica standard e di solito risultano inattive. Ma nelle cellule che sviluppano una forte resistenza alle cure, questi recettori di membrana si attivano e finiscono per rendere le cellule cancerose molto più simili a quelle di un intestino sano. Da qui l'incapacità dei farmaci attualmente in uso di riconoscerle e di conseguenza aggredirle. «Molti pazienti con un tumore al colon metastatico che non può essere trattato con la chirurgia vengono curati con cetuximab, un farmaco diretto contro il recettore per il fattore di crescita epidermico (EGFR, ndr) - spiega Livio Trusolino, a capo del laboratorio di oncologia traslazionale dell'istituto di Candiolo e prima firma della pubblicazione -. Cetuximab è efficace in quasi la metà di questi pazienti, ma non sempre eradica del tutto la malattia». La causa di questo successo è da ricercare proprio in queste cellule, abili a nascondersi e a rientrare in azione nel tempo: dando così il la a una recidiva.


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COME IL TUMORE «RAGGIRA» IL FARMACO

Nello studio in questione sono stati studiati (su campioni di tessuto umano) proprio questi serbatoi di cellule residuali, per capire come e perché sopravvivono a cetuximab: covando il fuoco sotto la cenere. «Abbiamo scoperto che, nel momento in cui c’è la massima risposta tumorale al farmaco, queste cellule spengono i segnali di EGFR, il bersaglio molecolare di cetuximab, e attivano due recettori molto simili e normalmente inattivi sul tumore». Si tratta, nello specifico, di HER2 ed HER3, anch’essi recettori di superficie per il fattore di crescita epidermico. Si tratta perciò di molecole della stessa famiglia, che nel tumore al colon si attivano soltanto sotto la pressione indotta dalla presenza del farmaco. Quasi una sorta di ultimo baluardo difensivo, che silenzia l’obiettivo del farmaco e crea uno scudo con molecole simili ma diverse. Da cui l'azione elusiva nei confronti cetuximab. 

LE POSSIBILI RICADUTE TERAPEUTICHE

«La minima quota di cellule tumorali che sopravvive alla terapia acquisisce caratteristiche di superficie simili a quelle di alcune cellule intestinali sane: di norma quiescenti, ma in grado di proliferare quando occorre riparare il tessuto intestinale a seguito di un danno», puntualizza Trusolino. Le cellule tumorali residue si comportano allo stesso modo: rimangono in stand-by, ma col tempo tornano a moltiplicarsi e provocano una ricaduta. Aver scoperto i segnali molecolari che vengono accesi per nascondersi a cetuximab e garantirsi una nicchia di sopravvivenza è considerato però un grande passo avanti. HER2 ed HER3 potrebbero infatti diventare l’obiettivo di terapie a bersaglio molecolare che potrebbero «sfibrare» lo scudo protettivo e ridurre così il rischio di recidive della malattia. 

 

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Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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