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Oncologia
Redazione
pubblicato il 19-09-2012

Le meduse ci aiuteranno a combattere il cancro



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Grazie ad una proteina fluorescente, in grado di cambiare colore a seconda della cellula che incontra, sarà più facile diagnosticare la presenza di cellule cancerose

Le meduse ci aiuteranno a combattere il cancro

Grazie ad una proteina fluorescente, in grado di cambiare colore a seconda della cellula che incontra, sarà più facile diagnositcare la presenza di cellule cancerose

Una medusa farà luce nel nostro corpo, per segnalarci anche una sola  cellula tumorale da eliminare subito, o per esaminare neurone per neurone tutta la mappa del nostro cervello, alla ricerca di malattie che nemmeno il più raffinato neuroimaging ci può far vedere. Ma perché una medusa? Lo chiediamo a Fabio Beltram, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, che nella terza e ultima giornata della ottava Conferenza Mondiale di Venezia sul Futuro della Scienza ha parlato di “Theranostics”, un neologismo scientifico che unisce diagnostica e terapia, perché metodi e sistemi vengono unificati dallo strumento delle nanotecnologie.

Professor Beltram, partiamo dalla medusa…    

La medusa è l’Aequorea Victoria, una cui proprietà portò al suo scopritore, nel 2008, il premio Nobel per la Chimica. Questa medusa ha una brillante fluorescenza verde, e fin qui non si distinguerebbe tra le sue consorelle luminose. Ma è la proteina che esprime con un pezzetto del suo Dna a portare questa specie di “lampadina”, e la cosa straordinaria è che questa luminosità, il che non è normale, può essere trasferita ad altre specie, dal pesce, al roditore, all’uomo. Trasferendo il pezzetto di Dna.  Ma questo è solo il punto di partenza…

Perché? 

Perché  siamo riusciti ad insegnare a questa proteina a cambiare il suo verde fluorescente in altri colori, ognuno dei quali diventa il precisissimo semaforo che ci serve per fare una nuova diagnostica e una nuova terapia.

Come funziona, in concreto?

La dimensione del micrometro, che è un milionesimo di metro, ci permette di creare delle nanostrutture che funzionano da laboratorio. Una nanostruttura è un assemblaggio di sottoinsiemi, che noi chiamiamo con la parola “dominio”. Ogni dominio ha una sua funzione, e dialoga con noi per mezzo di un diverso colore luminoso.  Per esempio, un dominio analizza quanta acidità (Ph) e quanto cloro c’è in una cellula del cervello, e ci serve per studiare l’epilessia; un altro dominio è sensibile a una cellula tumorale; un altro ancora ci dice dove questa cellula si trova; infine c’è un dominio capace di “intrappolare” il nanofarmaco, che rimane lì dentro finché non va a bersaglio sulla cellula da colpire.

Ma come si somministrano queste nanostrutture?

Sia per la diagnostica che per la terapia, con una semplice iniezione, che veicola nel sangue uno scafo di dimensioni nanometriche su cui è imbarcato il nanolaboratorio che studia e rintraccia le cellule, o il farmaco che le cura.

Ma non potrebbe essere uno dei rischi ipotizzati per le nanotecnologie? Poi che cosa succede di questi nanovettori?

E’ la cellula stessa ad eliminare questo portatore: infatti, le cellule hanno un  meccanismo di pulizia che equivale al cestino della spazzatura.

Ci sono altre novità in arrivo?

Sì, il sistema lab-on-chip.  Se pensiamo che le nanotecnologie ci potrebbero permettere di portare via una fabbrica in una valigetta 24 ore, non ci sembrerà strano che si siano potuti realizzare chip di ridottissime dimensioni e con un sacco di funzioni. Anche questo chip è un assemblaggio di dominii. Contiene un  intero laboratorio  e stiamo studiando un sistema per usarlo fuori dall’ambiente di laboratorio. Si tratta di una nanotavoletta  percorsa da canalini che s’incrociano, e in cui scorrono i fluidi che servono per l’analisi. Ad ogni incrocio, il dominio decide dove mandare i fluidi, che vengono spostati alle onde di un suono.”

Antonella Cremonese


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