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Oncologia
Caterina Fazion
pubblicato il 29-02-2024

"Cancer movies", ovvero come il cinema rappresenta i tumori giovanili



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I film riescono a raccontare la realtà di una diagnosi di tumore giovanile? Ne abbiamo parlato con ex pazienti, familiari e specialisti

"Cancer movies", ovvero come il cinema rappresenta i tumori giovanili

I film che affrontano il tema della malattia oncologica sono così numerosi da aver dato vita a un genere nuovo: il cancer movie, terminologia ormai entrata a far parte del gergo cinematografico. Ma il cinema è in grado di raccontare la realtà dietro una diagnosi di tumore? E queste storie possono effettivamente essere un utile strumento di sensibilizzazione e informazione? Per capirlo abbiamo parlato con alcuni ragazzi, ex pazienti oncologici.

Valentina, Alberto e Sofia ci hanno raccontato cosa salverebbero e cosa invece cambierebbero nei cancer movies presenti al giorno d’oggi per rendere la visione sempre più utile e veritiera.

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IL BOOM DEI CANCER MOVIES

Per anni il tumore è stato un grande assente dal cinema e ha iniziato a prendere piede solo a partire dagli anni ‘60-’70. Ad analizzare oltre 70 anni di storia del cinema, dal 1939 al 2012, per un totale di 75 film, successivamente estesi a 148, è stato un gruppo italiano dell’Università “La Sapienza” di Roma, nello studio "Oncomovies: cancer in cinema". Quello che emerge dallo studio è che le storie di tumore raccontate nel cinema sono spesso poco accurate e hanno toni eccessivamente drammatici, con epiloghi molto spesso negativi, cosa che non rispecchia realmente l’epidemiologia dei diversi tipi di tumore e soprattutto i progressi delle cure. Nonostante ciò, appare chiaro come abbiano bene o male contribuito a ridurre lo stigma nei confronti di una malattia che fino a non molti anni fa era addirittura impronunciabile.

 

IL MERITO DI SPEZZARE IL SILENZIO

«Accurati o meno che siano – commenta il dottor Carlo Alfredo Clerici, medico specialista in psicologia clinica presso la struttura complessa di Pediatria dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e docente all'Università Statale di Milano – film e fiction che sono riuscite a portare al cinema o in prima serata TV storie che parlano di malattia oncologica hanno sicuramente aiutato a lanciare un messaggio importante: della malattia non bisogna vergognarsi. Inoltre, soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione dei tumori pediatrici, hanno fatto un grande sforzo di informazione e sensibilizzazione per lanciare il messaggio che, seppur rari, i tumori pediatrici esistono. Una diagnosi di tumore in un bambino o in un ragazzo ha un impatto durissimo su tutta la famiglia, per questo il fenomeno non va visto solo in ottica puramente numerica, ma di rilievo sociale. Un aspetto che trovo manchi molto nella produzione cinematografica italiana, invece, è il fatto che non venga comunicato che si riesce a curare in maniera eccellente in regime pubblico ogni bambino o ragazzo, a prescindere dal reddito. Questa prospettiva di civiltà andrebbe maggiormente valorizzata».

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TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI

 

OCCORRE PARLARE AI RAGAZZI

Torniamo ora ai nostri ragazzi, Valentina, Sofia e Alberto, che Fondazione Veronesi conosce bene data la loro partecipazione al progetto #fattivedere nel quale, dopo la visione del film Quel fantastico peggior anno della mia vita, i ragazzi delle superiori, insieme a giornalisti di Fondazione Veronesi, specialisti oncologi e psico-oncologi ed alcuni ragazzi guariti da tumore, sviluppano un dibattito volto proprio a sensibilizzare e informare gli adolescenti sulle malattie oncologiche. Questo film, insieme ad altri che hanno per protagonisti dei ragazzi come La custode di mia sorellaColpa delle stelle, Braccialetti rossi, riescono a rappresentare al meglio l'esperienza di chi vive la malattia? Riescono a fornire un supporto ad amici e parenti per capire come approcciarsi a ragazzi e ragazze che stanno affrontando questa difficile fase della loro vita? Scopriamolo analizzando gli aspetti principali che ricorrono in quasi tutti i film dedicati alla malattia oncologica in età adolescenziale.

 

STARE VICINO A UN AMICO MALATO

Il mondo di un ragazzo adolescente è fatto di famiglia, scuola, sport, ma soprattutto amici, porto sicuro per condividere esperienze e crescere insieme. Nei cancer movies il tema dell’amicizia è piuttosto presente e prova a suggerire come comportarsi quando un amico si ammala di tumore.

Cosa si aspetta un ragazzo malato dai suoi amici? Sofia, Alberto e Valentina su questo tema la pensano allo stesso modo e le loro parole e i loro pensieri si sovrappongono. Ci tengono a precisare che la malattia non cambia la persona, il ragazzo resta lo stesso di sempre anche senza capelli o con qualche chilo in meno, e quello di cui ha bisogno è normalità. Tutti e tre descrivono la malattia come un mondo parallelo alla quotidianità che, per quanto possibile, non va interrotta, ad esempio continuando a studiare e frequentare i propri amici.

Come Rachel nel film Quel fantastico peggior anno della mia vita, anche Sofia, che con lei condivide la  diagnosi di leucemia, racconta di come i compagni di scuola, conosciuti da pochi mesi, le facessero "sentire la pressione addosso" e, non sapendo come comportarsi, tendessero ad escluderla. Cosa invece che non è capitata con i compagni della sua squadra di nuoto, amici di una vita che non l’hanno mai fatta sentire esclusa. Pur non partecipando alle gare, quando possibile Sofia è sempre andata ad assistere, condividendo traguardi, successi e sconfitte. «Quando un ragazzo si ammala si trova catapultato in un mondo nel quale vivere un’adolescenza normale è complicato», spiega Sofia, che oggi ha 23 anni. «Per questo tutti i ragazzi, anche grazie alla visione di film e serie tv sul tema dovrebbero essere sensibilizzati all’argomento e spronati a fare domande per conoscere e capire. Non bisogna avere paura di parlare delle solite cose, di ridere e scherzare anche con il ragazzo malato che, proprio in questo periodo ha ancora più bisogno di sentirsi un adolescente, parte di un gruppo».

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BASTA POCO

Anche Valentina, oggi trentenne, che all’età di 17 anni, quasi 18, ha ricevuto una diagnosi di leucemia linfoblastica acuta, fornisce qualche suggerimento su come comportarsi. «Alcuni amici mi sono stati accanto, altri invece, vuoi per paura, per eccessiva sensibilità o per disagio, sono scappati. Parlare con un genitore o con un fidanzato o una fidanzata potrebbe a volte risultare difficoltoso, per questo avere un amico che chiede anche solo “come stai?” può rappresentare una grande opportunità, se ne si ha voglia, di aprirsi e di raccontare le proprie fragilità. A tutti gli amici, ma anche genitori e fratelli, mi sento di dire che è sempre bene essere sé stessi, senza improvvisarsi volendo fare chissà cosa di speciale per stare accanto a una persona malata. Io ho sempre voluto restare aderente alla realtà, per non rischiare di essere risucchiata dalla vita parallela rappresentata dalla malattia, e in questo gli amici sono stati fondamentali».

Alle volte, esattamente come l’amico di Rachel nel film Quel fantastico peggior anno della mia vita, o Leo che sta accanto a Bea, protagonista dell’italiano Bianca come il latte rossa come il sangue, basta esserci. E, come ricorda Alberto, colpito da osteosarcoma nel 2010, all’età di 15 anni, basta poco per stare accanto a un amico, specialmente quando sei così giovane. «Nel mio caso, non potendo camminare, la cosa più normale del mondo è stata che i miei amici venissero a trovarmi a casa e giocassimo ai videogiochi. Certo, avevo bisogno dei miei spazi e del mio tempo a volte, ma sentirmi un essere umano vivente, e soprattutto con una socialità, è stato fondamentale per uscirne, per staccare la testa da un ambiente così complesso come l’oncologia pediatrica».

 

LA MALATTIA NON È SOLO PRIVAZIONE

Un altro aspetto ricorrente nei vari cancer movies dedicati ai ragazzi è il concetto, condiviso anche dal dottor Clerici in un precedente articolo, che la malattia non può essere solo privazione, non può essere un buco nero che inghiottisce ogni cosa capiti nel periodo delle cure. In tutti i film ricorrono momenti di spensieratezza e gioie quotidiane come una festa o una gita al mare. Senza esagerare con colpi di testa Hollywoodiani come il viaggio ad Amsterdam di Hazel per realizzare il desiderio di incontrare l’autore del suo libro preferito nel film Colpa delle stelle, anche Laura, mamma di Alberto, ci ha raccontato che, quando possibile, ha sempre cercato di far entrare la normalità nel periodo di cura. A volte è bastato davvero poco come “cedere” permettendo ad Alberto di pranzare con una semplice piadina o fermandosi a mangiare un boccone al ristorante dopo le visite in ospedale, per cercare di alleggerire una situazione complessa.

«La quotidianità continua a scorrere comuqnue, e non possiamo pensare che la vita di tutti si fermi. Per questo è stato giusto ad esempio che mio fratello continuasse a giocare a calcio e a vivere il più possibile normalmente la sua infanzia», ricorda Sofia. «Penso inoltre che la malattia non debba necessariamente solo togliere qualcosa, ma può anche dare. La malattia mi ha permesso di conoscere una Sofia che non pensavo nemmeno potesse esserci. Ero timida e insicura, ora sono molto più matura e determinata a prendermi ciò che voglio, con il desiderio di vivere al massimo ogni momento, senza mai fermarmi».

 

IL RUOLO EDUCATIVO DEI FILM

Per chi ha avuto un tumore, però, riuscire a rivivere determinati momenti sentendo riaffiorare la sofferenza di quel periodo non sempre è facile, come per Alberto che afferma di fare fatica a vedere film che parlano di malattie oncologiche, perché la cosa non lo fa stare bene. Sono tutti d’accordo però, che mostrare questo genere di pellicole nelle scuole per formare e sensibilizzare i ragazzi sia fondamentale.

«Ai ragazzi che desiderano stare accanto a un amico malato consiglio semplicemente di esserci nel momento presente – spiega Valentina –, che sia bello o brutto. Perché i giorni "no" per un ragazzo durante il percorso di cura ci saranno, è normale, ed è fondamentale che anche i film li mostrino. Non servono frasi di circostanza come “forza, devi reagire, non mollare, io credo in te” perché automaticamente fanno sentire il ragazzo sbagliato, come se non stesse facendo abbastanza o se non fosse abbastanza forte, quando magari l’abbattimento dura solo un giorno. Bisognerebbe invece invitare l’amico a “stare” dentro a quel dolore, viverlo, attraversarlo per poi aiutarlo ad andare oltre, se e quando sarà pronto».

Anche per Sofia le frasi incoraggianti molto diffuse anche nei film, sarebbero da evitare. «Ho sempre preferito non sentirmi dire nulla, ma semplicemente ricevere una visita per parlare del più e del meno, essere se stessi è sempre la chiave migliore».

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COME È RAPPRESENTATA LA MALATTIA?

Perché il ruolo educativo e di sensibilizzazione funzioni al meglio, però, molti dei film che trattato il tema della malattia oncologica andrebbero rivisti. Nella maggior parte, infatti, riconosciamo i ragazzi malati perché sono senza capelli, e sappiamo che cos’hanno perché questo viene chiaramente detto. Sono però pochi i film dove vengono mostrati i sintomi, il momento della diagnosi, le cure. O, come dice la mamma di Alberto, le piccole difficoltà quotidiane, spesso molto invalidanti come il fatto che un ragazzo di sedici anni si trovi a dover essere accompagnato persino in bagno, magari dalla propria madre.

«La maggior parte dei film e delle serie tv danno una visione distorta della malattia – spiega Sofia –, rappresentata in maniera molto vaga. I ragazzi stanno bene, sono sempre bellissimi, accennano solo un po’ di dolore, il loro volto è segnato dalle occhiaie, ma nulla di più. Io onestamente mi sono sentita presa un po’ in giro guardando determinati film o serie tv: spesso la rappresentazione della malattia va a sminuire il dolore e le difficoltà che un ragazzo sta affrontando, che non sono poche. Se dobbiamo realmente sensibilizzare sull’argomento mostrando la realtà, allora mostriamola così com’è, un po’ come succede nel film La custode di mia sorella dove, sempre senza esagerare, ci sono scene realistiche che fanno trasparire le reali difficoltà fisiche e psicologiche, anche dei familiari. Scene eccessivamente edulcorate le trovo più adatte a ragazzini che vanno introdotti all’argomento in maniera più soft, molto più piccoli, non certo adolescenti». Anche Valentina concorda: «quelle che parlano di cancro sono storie vere e la malattia non è mai uguale per tutti, ma ognuno la vive in maniera differente. Eppure nei film e nelle serie tv non solo si tende a uniformare ogni malattia per cui un tumore vale un altro, ma spessissimo il ragazzo muore, senza che sia raccontata la sua sofferenza durante le cure».

 

LA METAFORA DELLA BATTAGLIA

La malattia oncologica viene spesso raccontata come uno scontro, una battaglia da cui si può uscire vincitori o sconfitti. Questa narrazione è presente spessissimo nei film, sui giornali, ma anche nella quotidianità. Parenti e amici, elogiando la sua forza, incitano il paziente definendolo “guerriero”, pregandolo di non smettere di combattere. Ognuno dovrebbe essere lasciato libero di affrontare la malattia come meglio crede: forse per qualcuno vedere il tumore come una sfida da cui uscire vincitori potrebbe aiutare, ma altri potrebbero essere messi a disagio e potrebbero sentirsi investiti di una responsabilità che, in realtà, poco, per non dire nulla, ha a che fare con la forza di volontà. Quando si usa l’espressione "perdere la battaglia", o "la malattia ha vinto" si implica, seppur indirettamente e senza desiderio di ferire, un demerito nei confronti del paziente che sembra non aver lottato abbastanza o non essere stato sufficientemente forte.

 

ESISTONO ALTERNATIVE?

Spesso metafore, paragoni, giri di parole vengono utilizzate perché il tumore spaventa. Esistono paragoni più calzanti che rappresentino la malattia e il percorso di cura?

Per il dottor Clerici «la metafora della guerra è stucchevole e non è di molto aiuto. Io credo sia meglio insegnare, specialmente ai giovani, l’importanza della cura di sé e delle relazioni familiari e amicali che hanno bisogno di tempo e dedizione. Per questo penso che la metafora dell’agricoltura sia ben più calzante: non possiamo aspettarci una fioritura istantanea, ma c’è bisogno di una grande attenzione. Non serve imparare ad essere guerrieri, basterebbe essere capaci di creare rapporti duraturi che vanno mantenuti e coltivati da entrambe le parti».

Secondo Sofia la malattia non va definita, è semplicemente uno step della vita che ci si può trovare ad affrontare come no. Nel suo caso c’è stato e l’ha fatta crescere, l’ha fortificata e le ha donato un rapporto ancora più stretto con la sua famiglia. Secondo Valentina parlare di guerra contro la malattia non ha senso, «piuttosto la guerra è contro sé stessi: ci si fa mille domande a cui è impossibile trovare una risposta come ad esempio sul perché sia successo proprio a noi. La malattia è piuttosto un’esplosione, un insieme di tantissime sensazioni ed emozioni tutte mescolate insieme: rabbia, gioia, dolore, sorrisi e speranza». La mamma di Alberto, che durante il periodo delle cure è sempre stata positiva, certa che suo figlio ce l’avrebbe fatta, ha invece descritto la malattia come le stagioni, che vanno inevitabilmente lasciate passare. «La malattia è l’inverno gelido, che può essere seguito dalla primavera o da un uragano che spazza tutto, ma bisogna aspettare e vedere che succede».

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E DOPO?

Nei film che parlano di tumore, però, a mancare del tutto è “il dopo”. Cosa succede ai ragazzi e alle loro famiglie dopo la guarigione?

«Mi piacerebbe che la malattia fosse raccontata a 360 gradi: dalla diagnosi al fine cura», spiega Valentina. «Io oggi sto bene, ma una delle conseguenze della radioterapia è stata la necrosi di entrambe le teste del femore, una delle quali, non guarita, mi è stata sostituita con una protesi». Anche Alberto, a causa dell’osteosarcoma, oggi vive con una protesi al ginocchio. «Io non sono potuto tornare a giocare a calcio o a sciare, e qualche volta mi pesa, ma ho comunque potuto fare tante cose. Diciamo che mi sono reinventato».

«Immagino che tutti i tumori lascino un po’ di angoscia, specialmente per noi genitori», spiega Laura. «Per tutto il periodo del follow up ogni dolore preoccupa e la paura è tanta. A distanza di anni riusciamo a vivere più tranquillamente i vari controlli, ma un po’ di ansia c’è sempre».

Se i film andassero oltre oggi potrebbero mostrare una Valentina serena che ogni 15 febbraio festeggia il suo “vitaversario”, una Sofia determinata che continua a nuotare e un Alberto che, nonostante la protesi, non rinuncia a visitare la Muraglia cinese e a fare paracadutismo.

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Caterina Fazion
Caterina Fazion

Giornalista pubblicista, laureata in Biologia con specializzazione in Nutrizione Umana. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e il Master in Giornalismo al Corriere della Sera. Scrive di medicina e salute, specialmente in ambito materno-infantile


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