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Pediatria
Fabio Di Todaro
pubblicato il 26-06-2015

Solo 5 ragazzi su 100 conoscono i rischi infettivi di piercing e tatuaggi



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Il dato emerge da un’indagine realizzata su 2.500 liceali dall’Università Tor Vergata di Roma. La quasi totalità non è informata sulle potenziali insidie legate all'epatite (B e C) e l'Hiv

Solo 5 ragazzi su 100 conoscono i rischi infettivi di piercing e tatuaggi

Sono decorazioni sempre più amate dagli italiani: in modo particolare dai più giovani. Ma tatuaggi e piercing, sempre più visibili sulle spiagge durante la bella stagione, non sono sempre innocui per la salute. Se effettuati senza le necessarie misure di igiene e sicurezza, infatti, possono generare conseguenze per il fegato. Non tutti, però, ne sono a conoscenza. 

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L’INDAGINE

La conferma che in tema di sensibilizzazione ci sia molto da fare è giunta dal congresso della Società Italiana di Gastroreumatologia, appena conclusosi a Roma. Nel corso dell’appuntamento è stata presentata una ricerca condotta dall’università di Tor Vergata (Roma) su 2.500 liceali coinvolti attraverso un questionario anonimo. Lo scopo era valutare il grado di conoscenza dei rischi connessi a tatuaggi e piercing ed è emerso come il 24% dei ragazzi, dopo essersi sottoposti a una di tali pratiche, abbia sviluppato complicanze infettive. Di questi, soltanto il 17% aveva firmato un consenso informato. Fa riflettere anche il dato secondo cui soltanto il 54% dei giovani che s’erano fatti incidere la cute per ornamento disponeva di tutte le informazioni necessarie per essere certo della sterilità degli strumenti utilizzati.

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FEGATO SOTTO ATTACCO

Lo scenario resta meritevole di attenzioni, se soltanto il 5% dei giovani della Capitale è apparso correttamente informato sulle malattie che possono essere trasmesse: in primis le epatiti B e C - più del 10% dei casi in Italia è attribuibile ai trattamenti estetici -, seguite dall’infezione da Hiv. Le conseguenze più gravi rischiano dunque di registrarsi a carico del fegato, visto che i primi due virus si stabilizzano nell’organismo in maniera persistente e creano un danno cronico all’organo, come possono documentare gli oltre 1,2 di milioni di italiani che ne risultano affetti. Spesso questo tipo di infezioni rappresentano il preludio di due condizioni più gravi come la cirrosi e il carcinoma del fegato. E i tatuaggi, come documentato in uno studio pubblicato nel 2013 su Hepatology, rappresentano la prima fonte di trasmissione del virus responsabile dell’epatite C: soprattutto quando si riutilizzano aghi monouso, si lavora con materiale non sterilizzato e si inietta inchiostro contaminato da sangue infetto. 

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MEGLIO ANDARE SUL SICURO

«Il dato più interessante sta nei tempi di sopravvivenza del virus rilevati negli aghi e nell'inchiostro, variabile da pochi giorni nell'ambiente a quasi un mese nell'anestetico», afferma Carla Di Stefano, ricercatrice nel dipartimento di medicina sperimentale e chirurgia dell’Università Tor Vergata e autore dell’indagine. Se proprio non si può fare a meno di tatuarsi o di “bucarsi” un lobo o una narice, dunque, vale almeno la pena ricordare che «il rischio aumenta quando tali procedure vengono eseguite da principianti, in strutture con scarse condizioni igieniche, con strumenti improvvisati o nelle carceri», chiosa Vincenzo Bruzzese, direttore dell’unità operativa di medicina interna dell’ospedale Nuovo Regina Margherita di Roma e presidente della Società Italiana di Gastroreumatologia. Tatuatevi, se volete, ma con coscienza. E non sulle spiagge.

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Fabio Di Todaro
Fabio Di Todaro

Giornalista professionista, lavora come redattore per la Fondazione Umberto Veronesi dal 2013. Laureato all’Università Statale di Milano in scienze biologiche, con indirizzo biologia della nutrizione, è in possesso di un master in giornalismo a stampa, radiotelevisivo e multimediale (Università Cattolica). Messe alle spalle alcune esperienze radiotelevisive, attualmente collabora anche con diverse testate nazionali ed è membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis).


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