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Dai vaccini una lezione sulla comunicazione della scienza

Un recente sondaggio sull’opinione degli italiani su vaccini e obbligo vaccinale e ha messo in luce alcuni aspetti cruciali e critici della comunicazione pubblica della scienza

Dai vaccini una lezione sulla comunicazione della scienza

Ha fatto molto rumore un recente sondaggio sulle opinioni degli italiani in tema di vaccinazioni pubblicato da Observa, l’osservatorio Scienza e Società afferente all’Università degli Studi di Trento, rilanciato anche da Repubblica. Secondo i risultati resi noti dal team di Massimiano Bucchi, la quota di chi pensa che tutte le vaccinazioni dovrebbero essere obbligatorie è più che raddoppiata e oggi si attesta al 47 per cento. Restano contrari a ogni tipo di vaccinazione l’otto per cento degli italiani (in passato era il 19 per cento). Inoltre, quasi il novanta per cento ritiene che sia giusto vaccinare i bambini anche per non mettere a rischio la salute altrui. Sembra inoltre, riportano gli autori che lo scetticismo nei confronti dei vaccini diminuisca al crescere del titolo di studio. Va comunque precisato che l momento non sono stati resi pubblici i dati relativi.

Molti esponenti della comunità «pro-vax», tra cui il microbiologo Roberto Burioni, autore del libro Il vaccino non è un’opinione (Mondadori), e attivo sui social e in televisione nello smontare le bufale scientifiche sul tema. Perché tanta bagarre intorno a questo sondaggio? Perché, al di là dei toni trionfalistici con cui è stato accolto da una parte della comunità scientifica, i risultati emersi sono in controtendenza con la letteratura scientifica finora presente, tra cui anche rilevazioni precedenti svolte dalla stessa Observa. Esiste infatti un’ormai ricca letteratura che dimostra come l’esposizione a un contenuto informativo non faccia altro che rafforzare le posizioni pregresse. In sostanza, se sono convinto che i vaccini siano velenosi, le attività di «debunking», che dimostrano che così non è (e davvero, così non è), mi faranno arroccare sempre di più sulla difensiva, esacerbando le mie posizioni. Proprio in tema di vaccinazioni pediatriche, uno studio pubblicato nel 2014 sulla rivista Pediatrics, condotto su gruppi di genitori favorevoli o no alle vaccinazioni, esposti a contenuti informativi che sbugiardavano le bufale, ha mostrato come i due campioni fossero sono sostanzialmente impermeabili l’un l’altro. 


Riempire il gap informativo da solo non basta
, poiché le posizioni anti-scientifiche spesso rimandano a motivazioni psicologiche e sociali molto radicate e complesse. Inoltre, sempre secondo diverse indagini, il «no-vax tipo» è un adulto di mezza età dal grado di istruzione elevato, il che contrasta con le recenti affermazioni del gruppo di Observa. Come spiegare questa contraddizione? Gli italiani hanno davvero cambiato idea sulle vaccinazioni? Ovviamente, anche nell’analisi di questi risultati, occorre adottare lo stesso spirito critico che si usa con qualunque lavoro scientifico, stando attenti a non lasciarsi andare ad affermazioni entusiastiche senza che il dato lo supporti. Come riportato nella nota metodologica, le rilevazioni sono stati effettuati con la tecnica CATI/CAWI (interviste telefoniche e questionari on line) su 997 soggetti rappresentativi della popolazione italiana di età uguale o superiore ai quindici anni, stratificati per genere, età e ripartizione geografica. Dal punto di vista formale, la metodologia di raccolta delle risposte è ben fatta. Il nodo della questione, a mio avviso, è nella scelta del campione in relazione alla domanda.


Se vogliamo conoscere cosa ne pensano gli italiani in generale, il campione è adeguato. Ma se si intende dimostrare il cambiamento di rotta del sottogruppo «no-vax» per estrarre delle informazioni rilevanti sarebbe stato forse più informativo interpellare chi davvero è coinvolto nella decisione di vaccinare, cioè giovani genitori. Un diciottenne senza figli o una settantenne che ha visto gli effetti della poliomielite reagiranno diversamente rispetto a un quarantenne padre di famiglia che è cresciuto senza conoscere i danni di molte malattie ormai molto rare. Anche la domanda sull’obbligatorietà posta a tutti indiscriminatamente non dà informazioni: essa non riguarda tutti gli italiani, ma maggiormente la quota di genitori che si trova in questi anni a dover vaccinare i figli e che  viene, di fatto, privata di una libertà di scelta in nome della tutela della salute della collettività. Ciò che dice questo sondaggio può anche essere informativo (con alcuni punti da chiarire) per l’intera popolazione, ma non ci dà informazioni rilevanti sul comportamento dei «no-vax», che sono una fascia di caratteristiche demografiche peculiari: giovani genitori nella fascia 30-50 anni, di fascia sociale medio alta e con un buon livello di istruzione.

Infine, va detto che al momento sono stati resi pubblici solo alcuni dati del sondaggio in questione: quelli completi saranno inclusi nel nuovo Annuario Scienza e Società che sarà reso disponibile nelle prossime settimane, ed è possibile che alcuni dubbi troveranno risposta una volta visionati nella loro completezza. Nel frattempo, come raccapezzarsi in questo ginepraio? Sono davvero cambiate le opinioni dei genitori, e in generale degli italiani, sulle vaccinazioni? Ed è davvero merito, come qualche entusiasta sostiene, della comunicazione martellante e polarizzante sui social? A mio parere, dall’analisi della letteratura a oggi disponibile, una cauta sospensione del giudizio è d’obbligo. L’opposizione ai vaccini rientra in quei complessi meccanismi delle relazioni di scienza e società che solo da alcune anni sono oggetto di seri programmi di studio scientifico, con gli strumenti della sociologia della scienza. È normale, come in qualunque giovane disciplina, avere ancora dati empirici non perfettamente coerenti fra loro, con spazi di discussione e dibattito interno, anche se un quadro della situazione si sta delineando.

Quindi, che sia sui vaccini o su altri temi, come si affronta e si interpreta un dibattito pubblico su temi controversi su scienza e società? È una domanda da un milione di dollari. Se fare semplice «debunking» ha un effetto limitato, se non controproducente, nei confronti di chi è già fortemente polarizzato (e ancora non è chiaro se almeno sia utile per chi è semplicemente indeciso), al momento non sappiamo quali strategie mettere davvero in campo per affrontare con successo il dibattito pubblico in tema di scienza e società su vasta scala. Sicuramente un approccio partecipativo, inclusivo e pacato è la direzione da intraprendere, ma non sappiamo quale strada sia la migliore. Fondamentale è poi che qualunque strategia di dialogo venga messa in atto in tutti i livelli della società, con azione sinergica. Prendendo a esempio i vaccini, istituzioni sanitarie, medici, pediatri e operatori sanitari in prima battuta, a seguire anche gli organi di informazione, la scuola e i cittadini. Fino ad oggi, c’è stata, almeno in Italia, molta frammentarietà nel modo in cui queste tematiche vengono affrontate: il caso dei vaccini è emblematico perché vi sono differenze di azione tra le diverse Regioni, per esempio il braccio di ferro tra il Veneto e il Ministero della Salute sulle modalità di adesione all’obbligo vaccinale recentemente reintrodotto.

C’è però già una lezione che come comunicatori e giornalisti scientifici, ma anche come ricercatori, medici e sostenitori della scienza, possiamo trarre da questa vicenda, ed è l’aspetto più importante: nemmeno noi siamo immuni dai pregiudizi di conferma quando si tratta di dimostrare la veridicità di una nostra idea. Anche noi addetti ai lavori o simpatizzanti della scienza, sull’onda dell’emozione, siamo pronti a gridare al successo prima di ragionare a mente lucida, dimenticandoci che un singolo studio, nella scienza, non basta a farne una verità assodata. Anche noi possiamo essere vittima degli stessi meccanismi che condanniamo e critichiamo in chi crede alla pseudoscienza o al complottismo. Perché, in fondo, siamo tutti umani.



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