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La sperimentazione animale per curare Covid-19

Lavorare con gli animali necessario per conoscere a fondo il nuovo Coronavirus. Il ruolo della ricerca italiana

La sperimentazione animale per curare Covid-19

Nell’ultimo post abbiamo visto quanto fondamentale sia stata nel passato la sperimentazione animale nel risolvere crisi epidemiche simili a quella che viviamo in questi giorni. L’ultimo paragrafo era dedicato al caso dei coronavirus. Sì, uso il plurale perché di coronavirus ce ne sono vari e il SARS-CoV-2, come dice il numero alla fine del nome, non è certo il primo a darci dei grattacapi. Diciotto anni fa, fu un suo «parente», il SARS-CoV, a creare un’epidemia che, a sua volta, generò uno stato di panico. Col senno di poi, si trattava forse di panico ingiustificato, comparando i numeri di quella tornata di contagi con quelli attuali.

Tuttavia, la ricerca scientifica si vide colta di sorpresa dalla facilità con cui il virus SARS-CoV si propagava e iniziò da subito un massiccio sforzo per capire i meccanismi con cui esso riusciva a penetrare le difese del nostro sistema immunitario. Uno dei risultati, come menzionato nel post precedente, fu riuscire a comprendere che il virus possedeva una vera e propria «chiave» per entrare nelle nostre cellule, una proteina posta sul virus in grado di legarsi a un’altra proteina, questa posta sulla superficie delle cellule umane, chiamata ACE2. Fu fondamentale capire che il virus era in grado di infettare, con la propria chiave, qualunque cellula umana avesse ACE2, che costituiva quindi una vera e propria serratura. Questa nuova conoscenza fu la base per sviluppare un nuovo modello animale per studiare meglio la SARS. Una volta dotati i topi di questa serratura, si rese molto semplice infettarli con SARS-CoV e studiare meglio i meccanismi patologici della SARS.


Tutta questa premessa serve per portare l’attenzione su un dato temporale importante. La maggior parte degli articoli scientifici, e quindi delle scoperte, riguardo SARS sono stati pubblicati dopo la fine dell’epidemia. Oggi ci troviamo a combattere con un nemico molto più insidioso, SARS-CoV-2, e per fortuna abbiamo alle spalle diciotto anni di ricerche su SARS-CoV che ci permettono di affrontare questa sfida con un minimo di vantaggio in più. Come ripeto con amici e colleghi quando capitiamo sul discorso, se la pandemia di oggi ci avesse colpito nel 2002, difficilmente si sarebbe potuto prevedere che scenario avremmo avuto oggi nel 2020. Saremmo stati presi di sorpresa come ci colse di sorpresa la SARS, però con un nemico decisamente più pericoloso.

Per arrivare a una soluzione che ci permetta di tenere sotto controllo SARS-CoV-2 dobbiamo necessariamente capire alcuni meccanismi fondamentali, su tutti il modo in cui questo virus si comporta una volta a contatto con le cellule e quali sono i cambiamenti che induce a tutti i livelli, partendo dalle cellule per arrivare ai tessuti e agli organi. La logica conclusione di questa necessità è quella che, su questo blog, ripetiamo ormai da anni. Per studiare questi meccanismi, purtroppo non bastano le colture cellulari e servono necessariamente degli studi con animali. Non è un caso che Jackson Laboratory, probabilmente la più grande azienda di produzione di animali da laboratorio del mondo, responsabile dello sviluppo del topo con l’ACE2 umana (la serratura utilizzata dai coronavirus), abbia ripreso la produzione di questi topi vent’anni dopo l’epidemia di SARS.


C’è però un problema affatto banale che va considerato quando si sceglie di studiare malattie contagiose. Come da definizione, queste sono, per l’appunto, contagiose. In alcuni casi, come per Ebola o lo stesso SARS-CoV 2, sono molto contagiose. Lavorare con malattie del genere implica la necessità di avere un personale estremamente preparato e competente, misure di protezione estreme e, soprattutto, strutture adeguatamente isolate e attrezzate, di certo non molto diffuse. Gli stabulari sono di per sé strutture molto isolate dall’esterno. Ne esistono generalmente di due tipi, i convenzionali (con filtri di aria normali e protezioni individuali minime) e gli «specific pathogen free (SPF)», in cui i filtri di aria e le misure protettive sono più stringenti e sono dedicati, per esempio, allo studio con animali privi di sistema immunitario.


Queste protezioni, contrariamente a quanto si pensa, non sono ideate per noi che ci lavoriamo dentro, ma per proteggere gli animali. È giusto ricordare che gli animali che vivono in uno stabulario non sono adatti a vivere al di fuori di essi, perché poco resistenti alle infezioni che potrebbero contrarre e perché sono stati generati in determinate condizioni che ne influenzano il bioritmo e che non sono riproducibili al di fuori di uno stabulario. Le protezioni che usiamo prima di entrare in uno stabulario servono per proteggere gli animali da eventuali agenti patogeni che possiamo portare dall’esterno. Se vogliamo studiare malattie estremamente contagiose in animali, la situazione raggiunge il massimo della complessità. Dobbiamo garantire la sicurezza degli operatori e, al contempo, degli animali.


Secondo gli standard del Centro americano per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc), la biosicurezza di un laboratorio può essere classificata in quattro livelli, indicati con una «P» e un numero crescente a seconda del livello di isolamento garantito. Logicamente, più è pericoloso un agente patogeno, più alti saranno gli standard di sicurezza richiesti per studiarlo. Se per esempio è sufficiente un livello P1 per studiare l’Escherichia Coli, è logico aspettarsi un livello P2 per la malattia di Lyme, l’epatite o l’influenza e un livello P3 per rabbia e tubercolosi. I laboratori P4 al mondo sono meno di un centinaio e sono destinati ad agenti patogeni estremamente contagiosi e pericolosi come quelli causanti le febbri emorragiche. Viene da sé che è complicato trovare stabulari con un sufficiente livello di biosicurezza per studiare SARS-CoV-2 con animali.


Il San Raffaele di Milano dispone dell’unico laboratorio P3 al mondo in cui è possibile utilizzare tecniche avanzate di microscopia e sequenziamento per studiare malattie molto contagiose come Covid-19. Sotto la direzione di Luca Guidotti, vicedirettore scientifico del San Raffaele e ordinario di patologia generale del’Università Vita-Salute San Raffaele, e di Matteo Iannacone, suo ex allievo e ora collaboratore, responsabile dell’unità dinamica delle risposte immunitarie dello stesso istituto, questo spazio è stato utilizzato per studiare i meccanismi di azione delle febbri emorragiche. Grazie a una donazione di 700mila euro, si sta procedendo alla riabilitazione di questo spazio per poter ospitare topi con ACE2 umano e studiare i meccanismi di infezione attraverso due tecniche molto avanzate.


La microscopia intravitale permette di osservare processi biologici direttamente nell’animale vivo (addormentato con un’anestesia), in modo da poter distinguere le diverse cellule all’interno del tessuto mentre sono nel pieno delle loro funzioni. A differenza delle normali tecniche microscopiche che si basano nell’osservare un tessuto posto su un vetrino, questa permette di valutare i cambiamenti dinamici che un organismo sta affrontando, sia a livello di organi sia a livello di tessuti e di cellule. In altre parole, invece di vedere un «fermo immagine» della situazione, ponendo sotto osservazione un tessuto estratto ad un determinato momento della progressione dell’infezione, sarà possibile vedere in diretta l’evoluzione dell’infezione una volta che i topi saranno venuti a contatto con SARS-CoV-2. La seconda tecnica utilizzata nel P3 del San Raffaele è il sequenziamento a singole cellule. Il concetto di sequenziamento sta pian piano entrando nel vocabolario comune, da quando, nel 2003, fu completato il sequenziamento del genoma umano. Per spiegarlo, dobbiamo tornare un po’ alle lezioni di biologia delle scuole superiori.


La maggior parte delle macromolecole biologiche che costituiscono un organismo sono polimeri, ossia ripetizioni in catena di singole unità chiamate monomeri. Le proteine sono polimeri formate da combinazioni di 20 diversi monomeri chiamati aminoacidi. Gli acidi nucleici, come Dna e Rna, sono anch’essi polimeri formati da ripetizioni di quattro diversi monomeri chiamati nucleotidi. Probabilmente, in qualche occasione, vi sarà capitato di sentire le famose lettere A, C, G e T (o U, per l’Rna); ecco, quelle lettere indicano i quattro nucleotidi fondamentali (Adenosina, Citosina, Guanina, Timina) per la costruzione di Dna e Rna e spesso li sentite definire «la base della vita». Lasciando da parte la definizione un po’ romanzata e senza intraprendere qui una lezione di biologia molecolare, basti sapere che ogni cellula di un essere umano ha due copie di una specifica sequenza di più di tre miliardi di nucleotidi (A, C, G e T) a formare circa ventimila geni, ossia unità che fungono da «ricette» per preparare le proteine con le quali funziona un organismo.


Quando la cellula ha bisogno di preparare una proteina, il Dna è il suo ricettario e i geni costituiscono le ricette. Il gene viene letto dal Dna e copiato in forma di Rna che verrà poi tradotto in forma di proteina. È ragionevole aspettarsi che cellule provenienti da tessuti diversi abbiano bisogno di geni diversi e quindi producano Rna diversi. Per esempio, una cellula del pancreas avrà bisogno di tradurre il gene per produrre insulina mentre probabilmente non dovrà mai andare cercare la ricetta del gene per la produzione actina e miosina, le principali proteine che costituiscono i muscoli. Di conseguenza, se estraiamo tutto il contenuto di Rna (chiamato in gergo «trascrittoma») di una cellula di pancreas e lo compariamo con quello di una cellula muscolare, vedremo che nel primo ci sarà molto più Rna per produrre insulina e nel secondo molto più Rna per produrre actina e miosina.


Lo stesso discorso può essere applicato a cellule dello stesso tessuto in diverse condizioni, per esempio cellule dei polmoni sani o infettati da SARS CoV-2. Una cellula infettata avrà bisogno di produrre proteine diverse da una sana e quindi produrrà Rna diversi andando a cercare la ricetta di geni diversi nel Dna. Andare a vedere queste differenze, può suggerirci in che modo le cellule cambiano quando sottoposte all’infezione con SARS-CoV-2. E per vedere queste differenze, si può ricorrere al sequenziamento. Sequenziare un Rna significa decifrare la combinazione di A, C, U e G che lo caratterizza (in realtà la definizione è un po’ più complessa ma questa può bastarci, per ora). Normalmente, quando si sequenzia, si usa un mix di milioni di cellule.


Come abbiamo visto, alterando l’organismo, per esempio infettando il topo con SARS-CoV-2, è ragionevole aspettarsi che le cellule si comportino in maniera diversa tra loro e producano Rna in maniera diversa: se mischiamo milioni di cellule tra loro e poi ne sequenziamo l’Rna, queste differenze non potranno essere individuate. Con la tecnica del «single cell sequencing», invece, è possibile sequenziare Rna (o proteine, o Dna) di una singola cellula alla volta, permettendo un’analisi sicuramente più lenta ed elaborata ma, per definizione, milioni di volte più sensibile e precisa dei cambiamenti che sono in corso durante la progressione di Covid-19.

Auguriamo quindi un grosso in bocca al lupo al San Raffaele e alla sua piattaforma P3 per il loro futuro lavoro. Sono certo che il loro contributo sarà fondamentale per uscire da questa crisi e creare nuove, fondamentali conoscenze nel campo dei coronavirus.


 



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