La sclerosi multipla potrebbe avere inizio molto prima di quanto si pensi, con prime manifestazioni aspecifiche che precedono di circa 15 anni i sintomi clinici e la diagnosi. Lo suggeriscono diverse evidenze cliniche e lo dimostra ora uno studio pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Network Open.
LO STUDIO
Gli autori hanno seguito oltre duemila persone con sclerosi multipla, confrontandole con più di diecimila individui della popolazione generale, ricostruendo fino a venticinque anni di storia clinica prima dell’esordio della malattia. È emerso che i futuri pazienti iniziavano a rivolgersi ai medici con maggiore frequenza già 14-15 anni prima dei primi sintomi riconosciuti, soprattutto per disturbi psichici e lamentele vaghe, come stanchezza o malesseri difficili da inquadrare. Con il tempo comparivano poi visite legate a problemi sensoriali e muscoloscheletrici, fino ad arrivare a un netto aumento dei consulti neurologici e radiologici che raggiungono il picco nell’anno immediatamente precedente la manifestazione dei sintomi clinici della sclerosi multipla.
«I nostri risultati indicano che la sclerosi multipla può svilupparsi molto prima di quanto pensassimo. Saperlo è utile sia per chi indaga le cause della malattia e deve andare a guardare molto indietro nella storia del paziente, sia per chi cerca soluzioni terapeutiche», osserva l’autrice corrispondente dello studio, Helen Tremlett, PhD, professoressa nella Divisione di Neurologia della Facoltà di Medicina dell’University of British Columbia in Canada.
I TEMPI DELLA SCLEROSI MULTIPLA
Dallo studio emerge una sorta di cronologia della fase prodromica della malattia. Già quindici anni prima dell’esordio clinico, chi ha sviluppato la sclerosi multipla si sono rivolti più spesso al loro medico di base e sono stati visitati con maggiore frequenza per disturbi aspecifici — affaticamento, mal di testa, dolore diffuso, disturbi del sonno o malessere generale — spesso accompagnati da ansia e depressione. Dodici anni prima diventano più frequenti i consulti psichiatrici, a conferma che questi disturbi mentali fanno parte integrante della fase iniziale. Intorno ai nove anni precedenti crescono le visite oculistiche, mentre quelle neurologiche aumentano a partire da otto anni prima. Nei cinque anni successivi sono comparsi più di frequente anche i problemi muscoloscheletrici, seguiti, quattro anni prima dei sintomi clinici della sclerosi multipla, da disturbi del sistema nervoso. Nell’ultimo triennio precedente si sono intensificati gli esami radiologici e gli accessi al pronto soccorso, fino al picco dell’anno immediatamente precedente, quando le visite neurologiche hanno raggiunto la massima intensità.
ATTENZIONE ALLE FACILI CONCLUSIONI
«Non conosciamo le cause precise di questa dinamica», spiega l’autrice. «Possiamo però avanzare alcune ipotesi. Una possibilità è che l’aumento di ansia e depressione sia legato all’infiammazione che compare molto presto nella sclerosi multipla, coinvolgendo cervello e midollo spinale attraverso l’attivazione del sistema immunitario. Un’altra ipotesi è che chi presenta sintomi vaghi, come affaticamento o vertigini, venga interpretato dal medico come depresso, o finisca per sentirsi tale a causa della frustrazione di non trovare risposte».
La ricercatrice ci tiene però a precisare che questi risultati non devono destare allarme tra chi soffre di disturbi psichiatrici o stanchezza: «La grande maggioranza delle persone con questi disturbi non svilupperà la sclerosi multipla. Da soli non bastano certo a prevedere chi si ammalerà. Ma un giorno potrebbero diventare parte del mosaico di informazioni utili, quando avremo strumenti in grado di riconoscere e magari diagnosticare la sclerosi multipla in una fase precoce».
MANCANO BIOMARCATORI PER LA DIAGNOSI PRECOCE
Attualmente non esiste un metodo semplice, rapido ed economico per diagnosticare la sclerosi multipla. L’accertamento si basa sulla valutazione clinica dei sintomi e soprattutto sulla risonanza magnetica, che consente di visualizzare le tipiche lesioni nel sistema nervoso centrale. Spesso si ricorre anche alla puntura lombare, per rilevare nel liquido cerebrospinale segni di infiammazione caratteristici della malattia. «Quello che ci manca – osserva Massimo Filippi, Presidente del Collegio dei Professori Ordinari di Neurologia, professore ordinario all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e direttore delle Unità di Neurologia, Neurofisiologia e Neuroriabilitazione all’IRCCS Ospedale San Raffaele – sono biomarcatori plasmatici, cioè rilevabili con un semplice prelievo di sangue, come già avviene oggi per l’Alzheimer o per molti tumori».
La risonanza magnetica resta infatti un esame costoso e non praticabile su larga scala per chi manifesta sintomi vaghi o poco specifici. «Se riuscissimo a individuare marcatori nel sangue – continua Filippi – potremmo riconoscere molto più frequentemente la malattia nella sua fase presintomatica e intervenire per rallentarne, se non addirittura bloccarne, lo sviluppo. È lo stesso approccio che adottiamo quando trattiamo un paziente con glicemia alterata per prevenire i danni del diabete, o una coronaria ostruita per prevenire un infarto».
La sclerosi multipla è una malattia autoimmune: il sistema immunitario, per errore, scambia la mielina – la guaina che riveste i neuroni – per un nemico e la attacca, danneggiando la comunicazione nervosa. Oggi sono disponibili circa venti farmaci in grado di ridurre la comparsa di nuove ricadute e di nuove lesioni e rallentare la progressione della malattia. «Il trattamento precoce – sottolinea Filippi – è un principio fondamentale: grazie a un intervento terapeutico tempestivo, le nuove generazioni di pazienti hanno prospettive di vita incomparabili rispetto a venti o trent’anni fa. La sfida ora è riuscire a riconoscere la malattia già nella fase prodromica e somministrare i farmaci prima ancora che compaiano i sintomi clinici».
SMARTPHONE PER IDENTIFICARE I PRIMI SINTOMI?
Si tratta di un ambito di ricerca molto attivo, al centro dell’attenzione di diversi team di scienziati, anche in Italia. In Campania un gruppo di ricercatori sta addirittura valutando la possibilità di usare per una diagnosi precoce non dei marcatori biologici ma le nostre abitudini quotidiane, monitorate attraverso lo smartphone.
«Gli smartphone che usiamo ogni giorno possono diventare straordinari alleati per la salute», spiega Luigi Lavorgna, neurologo presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Luigi Vanvitelli. «Il telefono conosce le nostre abitudini digitali – come scriviamo, quante app apriamo, quanto ci muoviamo – e se queste routine improvvisamente cambiano, può essere un campanello d’allarme.» Da questa intuizione nasce il progetto, oggi in fase di arruolamento, sviluppato insieme al professor Pasquale Arpaia e alla professoressa Maria Triassi dell’Università Federico II di Napoli, al professor Vincenzo Brescia Morra e alla professoressa Simona Bonavita dell’Università Vanvitelli. L’idea è utilizzare i sensori già presenti nei telefoni – dall’accelerometro al giroscopio, dal GPS al microfono, fino al sensore di luce o al monitoraggio della digitazione – per individuare variazioni nei comportamenti quotidiani che potrebbero riflettere i primi segni della malattia, ben prima della comparsa dei sintomi clinici.
«Naturalmente rispetteremo la privacy e non avremo accesso a dati qualitativi, come il contenuto dei messaggi o i siti visitati» precisa Lavorgna, «ma analizzeremo solo dati quantitativi, come la frequenza delle chiamate, la velocità di scrittura o i cambiamenti nei movimenti. È un approccio semplice, adatto alla popolazione target – la SM viene diagnosticata in genere intorno ai 30 anni, sarebbe quindi indirizzato ai ventenni, che usano moltissimo i telefoni – che potrebbe aprire la strada a una diagnosi molto più precoce, permettendo di intervenire tempestivamente con le terapie».